Mick Harris, Nick Bullen, Justin Broaderick: tre nomi, una garanzia.

Con questa opera targata '92 si ricompone la leggendaria triade che, sotto il monicker Napalm Death, dette alle stampe quel fulmine a ciel sereno che fu "Scum", lavoro fondamentale non solo per aver saputo dettare nuovi standard nel modo di concepire la musica estrema, ma anche per aver saputo influenzare, contaminare ed aumentare il range espressivo di generi ben più nobili come il free-jazz e l'avanguardia (il nome John Zorn vi dice qualcosa?). Seppur lontani anni luce delle schegge impazzite di furia incontrollata che hanno contraddistinto quel capolavoro dell'87, i suoni di questo "Vae Solis" portano in sé lo stesso spirito antagonista, la stessa intransigenza, lo stesso pessimismo di fondo. Qui però le composizioni si dilatano, prendono una forma più mediata e riflessiva, la componente grind si mitiga in una lenta colata lavica di suoni inquietanti ed apocalittici, tanto che il sound di questa nuova creatura potrebbe essere descritta come un imponente edificio sull'orlo del collasso o come una vecchia fabbrica in disuso, in cui l'industrial più pesante e melmoso stringe la mano all'ambient più oscuro. Un luogo dove Harris e compagni non solo sono in grado di rileggere in modo originale e personale le lezioni impartite nella decade precedente da Killing Joke, Ministry e Swans, ma riescono a portare le argomentazioni di questi maestri dell'ossessione alle estreme conseguenze, forgiando un suono nuovo, malato, pesante, psichedelico.

Nei suoi 75 minuti di durata, "Vae Solis" è un autentico viaggio attraverso il gelo delle macchine, il fetore delle ruggine, lo stridio delle ferraglie, un itinerario disumano in cui prevalgono la desolazione, l'alienazione, la disperazione. Assenza totale di speranza: questa è un po' la sensazione che ci accompagna in questa incredibile discesa negli inferi, non altro che una metafora della realtà che ci circonda. Non sarebbe fuori luogo, di fatto, accostare questi suoni alle atmosfere del capolavoro letterario di George Orwell "1984", di cui questo album potrebbe costituire l'ideale colonna sonora. Nell'incedere magmatico di questi terribili suoni e riflessioni (mai il gioco di parole "pesante" e "pensante" è stato più azzeccato) è possibile riconoscere le tre anime che compongono il progetto. Vi è quella sperimentale e meditativa di Harris, che, dimessi i panni del furioso batterista dei Napalm Death (oramai impantanati nei cliché dal gruppo stesso inventati qualche anno prima), pur non abbandonando del tutto il suo strumento, decide di guardare avanti e di esplorare i lidi dell'elettronica, gettandosi a capofitto nel mondo dei sinth, dei sampler, delle drum-machine . Vi è poi l'anima malata ed oscura di Bullen, coautore con Harris di testi e musiche (ricordiamo che il progetto Scorn esce a nome dei due, Broaderick compare solamente come guest), che di suo ci mette l'ugola al vetriolo e il basso distorto. La sua voce effettata e riverberata dai mille e diversi effetti si contorce e reitera in vortici di disperazione e nichilismo: che si tratti di growl o di un cantato pulito, l'effetto è annichilente. Il pulsare ipnotico del suo basso è invece l'ossatura portante del sound, sia laddove i ritmi si fanno sostenuti e le chitarre abrasive, sia dove il sound si fa più scarno, ai limiti del dub e del trip-hop. Vi è infine l'anima metallica di Broadrick, qui in veste di ospite, che presta il sound sporco e pastoso dei suoi Godflesh ai due ex-compari: che dire, secondo me è il vero poeta dell'era moderna, con il suo riffing corposo dalle frequenze ultra-basse, che si cimenti in sfuriate hardcoreggianti o si abbandoni ad interminabili derive psichedeliche, è in grado di regalare saggi di autentico esistenzialismo post-industriale. Il risultato? Colate laviche di elettricità, lenti fiumi di feedback, un magma rovente di metallo ossessivo che va a colmare tutti gli interstizi e i vuoti che di lasciano alle spalle gli scarni colpi di batteria e lo sferragliare del basso. Momenti più tirati (in cui l'ottimo drumming di Harris torna a farsi notare), altri più lenti, ai limiti del doom più claustrofobico o della drones music (altro che Sunn 0))) !). Rumori inquietanti, voci campionate, inserti di elettronica minimale, aperture ambient di grande inquietudine: tutti elementi che vanno a comporre un incubo in cui è impossibile intravedere via d'uscita.

È curioso, a tal riguardo, notare come questo viaggio, che impegna fisico, mente e cuore, sia orientato effettivamente verso il nulla, verso la totale disumanizzazione; come, per mezzo di un meccanismo cinicamente e perversamente calcolato, l'elemento umano venga progressivamente e programmaticamente mutilato e sottratto dal corpo sonoro dei nostri: in questo modo l'aggressività e la rabbia delle prime tracce si va a stemperare di brano in brano, il sound si fa progressivamente sempre più dilatato, psichedelico, avvolgente; le macchine prendono lentamente il sopravvento: la batteria lascia il posto alla drum machine, la voce ai campionamenti e la chitarra ai sinth, fino a giungere al "niente" del trittico conclusivo, come se simbolicamente si passasse dalla parte del carnefice a quello della vittima, in un gioco sado-masochistico in cui non esiste scambio, comunicazione, ma solo l'atto del violentare e dell'essere violentati (e questo a cui ci ha portato forse un sistema economico che si basa sugli egoismi personali e sull'estrema competizione?). E così, quando si giunge finalmente alla catarsi dark-ambient della conclusiva "Still Life", ci sembra impossibile che il tutto sia partito dall'assalto frontale dell'opener "Spasm" (nemmeno tre minuti di estrema violenza post-grind). Forse a ricordarcelo è il fischiare delle nostre orecchie, sottoposte a tutti i tipi di tortura, dai ritmi sostenuti e i suoni sporchi di "Walls of my Heart" e "Lick Forever Dog" alla cacofonia insopportabile del doom calustrofobico e disturbante di "Thoughts of Escape". Un ascolto senz'altro estenuante, difficile, dove però capita d'imbattersi anche in momenti, per modo di dire, più "leggeri", come l'orecchiabile "On Ice", un ibrido fra Killing Joke e Depeche Mode, la rock-oriented "Heavy Blood" e il quasi dub di "Scum after Death", che vanno a rimarcare, se ce n'era bisogno, la versatilità e l'apertura mentale dei nostri.

Un capolavoro assoluto che sa trascendere i cliché della scena di appartenenza ed innalzarsi allo status di "musica esistenziale", una musica che riflette e fa riflettere, che sa descrivere gli umori di una società alienata e dominata dalle macchine e in cui non c'è più spazio per l'uomo. Una proposta che conserva tutt'oggi un'innegabile fascino per la sua freschezza e la sua intransigenza (e che continua a fare paura, nonostante i confini dell'estremo si siano nel frattempo spostati ulteriormente in avanti). Qui, mai come altrove, è lecito usare l'etichetta "post", qualsiasi cosa vogliate intendere con essa.

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