Un angioletto che suona la fisarmonica su un cumulo di ossa e teschi...

 Dietro a questa curiosa copertina e al misterioso progetto Scorpion Wind si celano in verità i soliti noti della scena apocalittica: Douglas P. (chitarre e tastiere), Boyd Rice (voce) e John Murphy (percussioni).

 Registrato in diverse sessioni fra il 1995 e il 1996 ad Adelaide (oramai quartier generale dell'esule Pearce), "Heaven Sent" risente senz'altro di quello che erano i Death in June all'epoca (quelli di "Rose Clouds of Holocaust", tanto per capirsi). Ma a scanso di equivoci è bene precisare che ci troviamo in realtà ai cospetti del tipico album parlato di Rice. Se ne stiano alla larga, quindi, coloro che mal hanno digerito polpettoni sulfurei come "Music, Martinis and Misanthropy" (Boyd Rice and Friends), e "Alarm Agents" (Death in June & Boyd Rice).

"Heaven Sent", meno fosco e belligerante del primo, e decisamente meno apocalittico del secondo, è un bizzarro viaggio nella mente visionaria di Boyd Rice: una sorta di aperitivo misantropico che ci vede riversi sul bancone di una squallida bettola a sorseggiare Martini e sproloquiare, con amarezza e disincanto, sul senso della Storia, del Mondo, della Vita.

 Rice, e chi lo conosce lo sa, non è un fragile menestrello alle prese con il proprio Io disgregato, bensì uno sbruffone in fuga dal mondo: fra ironia e intenti polemici il monologo di Rice assume i toni di una chiacchierata con un intimo amico, dove i sottointesi, gli ammicchi, le strizzate d'occhio si sprecano.

Meno esplicito del solito, in "Heaven Sent" Rice ha modo di manifestare il lato più intimo ed appassionato del suo carattere. E se a tratti l'album sa affascinare per davvero, è percepibile per tutta la sua durata un limite evidente: quello di voler comunicare fottendosene dell'interlocutore (che poi non è nemmeno comunicare, a guardar bene!). Cosicché a noi non rimangono che due possibilità: piantare in asso, annoiati, l'ubriaco ed andarcene a metà dello sproloquio. Oppure, se si ha tempo da perdere e si è ugualmente ubriachi, rimanere con lui ed abbandonarsi alle sue stronzate. E all'ebbrezza dell'alcool!

 L'ascolto scorre così senza particolari sussulti, sull'onda della chitarra di Douglas P. e i versi suggestivi di Rice. Il fascino innegabile di certe atmosfere, tuttavia, finirà per lasciare il campo alla noia ed alla stanchezza.

Si richiedono più tentativi, in realtà, per cogliere la miriade di sfumature che si celano dietro l'apparente semplicità dei pezzi: i giochi di parole, l'incedere ipnotico delle strofe, il fantasioso tamburellare di Murphy, i sontuosi arrangiamenti di archi a cura dello stesso Pearce, i contributi dei vari Timothy Jenn (chitarra e tastiere), Campbell Finley (tromba) e Richard Leviathan (percussioni).

 Se le danze si aprono in maniera piuttosto anonima con "Love Love Love (Equilibrium)", maestoso brano d'iniziazione, con "Preserve Thy Loneliness" sarà difficile non farsi catturare dal fascino del Rice-pensiero, mentre "In Vino Veritas" capiterà addirittura di provare simpatia per quel briccone di Rice.

I brani si susseguono sostanzialmente omogenei, arricchiti via via da provvidenziali guizzi estemporanei (lo xilofono di "Paradise of Perfection", le orchestrazioni minacciose e le percussioni etniche di "Roasted Cadaver", la tensione dei violini di "The Cruelty of the Heavens", le atmosfere sornione di "There is no More Sleep" arricchita dal piano e dalla tromba). Guizzi che però non risolleveranno le sorti di un lavoro prolisso, troppo lungo (ben un'ora la durata dello scherzetto!), dove le idee vincenti (che non mancano) vengono inevitabilmente afflosciate dal parlottare monotono di Rice.

 Arrivare all'ottava traccia, "Some Colossus", sarà quindi una vera fatica: fatica che però verrà ampiamente ripagata dai coinvolgenti brani finali che, in un certo senso, valgono il prezzo del biglietto.

Perché una volta interrotto il passo singhiozzante della marziale "Some Colossus", e lasciata nel vuoto la voce di Rice, l'attacco di chitarra e violini di "The Path of the Cross" è da vera pelle d'oca: il brano richiama i Death in June più fottutamente paesaggistici, e nel suo incedere so(e)litario sa toccare picchi di emotività che i principianti del folk apocalittico non raggiungeranno mai (MAI!).

Ma il vero apice dell'album è la successiva "Never Forget", 14 minuti di estasi onirica in cui la musica degli Scorpion Wind ricorda non poco le maestose evoluzioni di un album come "Disintegration" dei Cure: il sospiro di Rice, che ripete all'esasperazione il titolo del brano, affiora sovente dal languore delle chitarre, dalle trame romantiche delle tastiere, dai rintocchi sognanti delle percussioni.

 Che dire, in conclusione: uno scazzo fra amici questo "Heaven Sent", una parentesi trascurabile anche per i fan più accaniti della Morte in Giugno.

Del resto, che gli stessi autori siano stati i primi a non essersi presi troppo sul serio, questo lo si capisce già dalle foto che ritraggono i Nostri in pose truci, stretti in un tenero abbraccio con un pacioso koala!

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