Una piacevole riscoperta questo "Lonesome Crow", album d'esordio degli Scorpions, datato 1972, molto distante dalle sonorità plasticose degli anni '80 (ovviamente), ma a ben vedere anche diverso da quello che la band proporrà negli immediati anni a venire. La formazione vede coinvolti, oltre ai fondatori Klaus Meine e Rudolph Schenker, una sezione ritmica basso/batteria che si rivelerà la migliore di tutta la carriera degli scorpioni (nonostante il loro apporto si fermerà con l'album in questione) ma sopratutto suà maestà Micheal Schenker, fratello minore di Rudolph, qui al suo esordio a soli 17 anni (!!), ma già con una tecnica e una personalità invidiabile, che lo porteranno negli anni ad essere riconosciuto conme uno dei più bravi nonchè influenti chitarristi della scena hard rock/heavy metal (un certo Ozzy Osbourne avrebbe voluto proprio il chitarrista teutonico come sostituto di Randy Rhoads...).

"Lonesome Crow" lo si potrebbe definire hard rock, ma in realtà è qualcosa di più, pesantemente influenzato com'è dalle sonorità tipiche dei Black Sabbath e in parte hendrixiane, con delle marcate derive psichedeliche che completano il quadro: nonostante gli evidenti richiami a quelle sonorità, il disco riesce a suonare nuovo e originale, in una formula che, ahimè, non verrà mai più ripresa dalla band, se non in parte nel successivo "Fly To The Rainbow".

L'opener "I'm Going Mad" la si potrebbe definire come la perfetta sintesi di quello che sentiremo più avanti: dopo un piccolo ma efficace intro di batteria, è la chitarra di Schenker ad entrare prepotentemente in scena con un'assolo piuttosto deciso ma breve, seguito da un riffing  sostenuto che occasionalmente si incattivisce e prosegue a passo di doom, in perfetto stile Sabbath. La voce entrerà di conseguenza, ma non è cattiva ne "malata", è semplicemente rilassata, angelica in un certo senso, e soprattutto il cantato si riduce ad una sola strofa che termina in un 'urlo che pare squarciare l'atmosfera della canzone che andava "stabilizzandosi"; gli assoli furibondi di Schenker faranno il resto, andandosi a mischiare alle urla strazianti di Klaus nel finale.

La successiva "It All Depends", così come "Action", sono più marcatamente vicine ad un hard-rock classico, e infatti Schenker è libero di sbizzarrirsi con gli assoli che stanno lì a dimostrare, semplicemente, che razza di chitarrista sia, nonostante la giovane età.

Con "Leave Me" si torna a "ragionare": l'intro è assolutamente psichedelico, con quei suoni che quasi stordiscono l'ascoltatore e che accompagnerannno in sottofondo tutta la canzone, ben condotta dalla voce sempre più convincente di Klaus Meine, qui sorretta da delle  backing vocals azzeccate; la canzone si interrompe verso il 4 minuto, per poi riprendere e accellerare con le chitarre incrociate del duo Rudolph/Micheal, primo vero esempio di uno stile che sarà ripreso da tante band come i Thin Lizzy, i Judas Priest e così via. "In Search Of The Piece Of Mind" si apre con un riff molto particolare di chitarra elettrica, ma la canzone proseguirà con l'acustica, e il basso pulsante a sorreggere il cantato; il tutto sembra finire al minuto 3, con la voce e gli strumenti che si perdono nell'eco del vento che pare via via allontanarsi: potremmo definirla una quasi-ballad, per via del suo incedere tranquillo, ma la canzone riparte a mille con la voce isterica e con schitarrate dure che paiono dei rintocchi di campane. C'è da sottolineare anche lo splendido lavoro della batteria, qui così come nelle precedenti canzoni, che non appare per nulla quadrata, o anonima che dir si voglia, ma invece piuttosto creativa e libera di spaziare e di ritagliarsi un suo preciso spazio all'interno delle canzoni.

Con "Inheritance" è la voce di Klaus Meine a salire sugli scudi, regalandoci quella che non esito a definire come una delle sue migliori prove in assoluto: spettacolare il suo modo quasi improvviso di alzare la voce, e di farla poi tornare "composta" con sorprendente facilità, dimostando una grande duttilità vocale. La canzone poi  è un continuo intreccio di assoli tipicamente hendrixiani che completano in modo sublime il pezzo, che si rivela una delle migliori del lotto, insieme all'opener, e alla successiva title track.

La conclusiva "Lonesome Crow" è forse l'apice del disco, con i suoi 13 minuti di pura follia sonora in cui, più che in ogni altra composizione, si nota la pesante ombra dei Black Sabbath, tant'è vero che l'intro richiama, in modo piuttosto evidente,  l'atmosfera oscura e misteriosa dell'omonima canzone dei Sabbath. Le "esagerate" distorsioni chitarristiche di Schenker però, spingono il tutto verso sonorità psichedeliche, con l'incedere incessante della batteria, e il basso pulsante che ben accompagnano il delirio chitarristico in atto, che occasionalmente sfoscia in assoli in pieno Tony Iommi style; la chitarra dunque è la verà protagonista del pezzo, e si placa solo durante le parti cantate, continuando comunque a produrre echi e riverberi, autentiche rifiniture di "classe".

In definitiva, album che non esito a definire il migliore degli Scorpions anni '70, a contendersi la palma con il pur diverso (e bellissimo) "Taken By Force" di 6 anni più tardi. Album ingiustamente rilegato nell'oblio, in primis dalla band stessa, che non ha mai preso in considerazione l'idea di portare avanti negli anni certi brani, preferendo invece concentrarsi su un hard rock certamente più "immediato" ma meno originale e "fascinoso", sfosciando via via nelle plasticose banalità degli anni '80. Peccato.

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