Ci sono album su cui si potrebbe scrivere una recensione ancora prima di averli ascoltati (o almeno così parrebbe).
Prendiamo questo tributo a tre dedicato al cantautore americano Townes Van Zandt. Basta avere in mente le prove soliste di Steve Von Till e Scott Kelly (già compagni nei Neurosis) per capire dove si andrà a parare; quanto a Wino, che certo non ha bisogno di presentazioni, non è difficile fare previsioni, anche senza aver prestato attenzione ai suoi lavori partoriti in solitaria (“Punctuated Equilibrium” e “Adrift”). Nove pezzi, tre cada uno, la tipica mezzorettata di western apocalittico, ossia una chitarra, una voce, di tanto in tanto una slide-guitar ad arrotondare gli scarni arrangiamenti, e tanto tanto amore per la lunga storia dei folk-singer vestiti di stelle e strisce: questo è quello che ci si aspetta da un titolo come “Songs of Townes Van Zandt” e dai tre nomi che vi campeggiano sopra. Cosa aspettarsi di diverso?
E a conti fatti questo è quello che passa per le orecchie, anche se poi i minuti sono un po' di più (trentasette per l'esattezza). Ma uno cosa c'è, che non era stata preventivata: la bellezza dei testi e delle musiche di Van Zandt, il cui spirito sopravvive alle versioni rilasciate dai tre bardi, i quali preferiscono aderire con devozione alle tracce originali piuttosto che stravolgere quanto già detto dall'artista tributato. John Townes Van Zandt (1944 – 1997) non gode certo di una grande popolarità, ma rimane indubbiamente una figura di culto all'interno della musica country statunitense. A ridargli vita e il giusto riconoscimento nell'anno 2012 sono tre paladini della musica pesante, che per l'occasione staccano la spina dei loro amplificatori per cimentarsi in un'accorata perlustrazione dell'arte di quello che per loro è stato evidentemente non solo un idolo della gioventù, ma anche e soprattutto una tappa fondamentale lungo il loro percorso di formazione: un sentito atto di riconoscenza con il quale i Nostri, fino ad oggi, si sono via via cimentati nella dimensione live (Von Till, in verità, aveva già dato alle stampe un altro pezzo di Van Zandt, quella “Willow Tree” che campeggia orgogliosamente nella track-list del suo ultimo album solista “A Grave is a Grim Horse”), e che solo adesso viene ad ufficializzarsi con questa uscita che più di ogni altra cosa appare come uno sfogo personale, un'occasione per condividere con altri un artista ai più sconosciuto, nonché un test (per noi) per misurare la maturità cantautoriale effettivamente raggiunta dai musicisti coinvolti. Vediamone quindi i dettagli.
A prima vista i pezzi di Steve Von Till e Scott Kelly tendono ad assomigliarsi: non solo perché i due provengono dalla stessa band, ma anche perché le loro carriere soliste (oramai collaudate) scorrono da tempo sui medesimi binari. Ambientazioni minimali e una voce roca e sofferta sono gli assi su cui si va ad estendere il loro discorso, ma quanto ad intensità interpretativa Von Till pare essere parecchia strada avanti rispetto al compare: un Von Till che appare ulteriormente maturato rispetto a come l'avevamo lasciato in “A Grave is a Grim Horse”, e non è poco. Se “If Needed You” (dedicata con affetto alla compagna) è quasi una ninna-nanna in cui lo slancio interiore si fa intima e fragile dedica d'amore, il salto di qualità è palpabile nelle superbe e visionarie “Black Crow Blues” e “The Snake Song”: la prima gode di una prova vocale a dir poco maiuscola (per intenderci: siamo dalle parti di Mark Lanegan), la seconda (più articolata in sede di arrangiamento) è misurata da mesti battiti rituali ed attraversata da gelidi strali di effettistica, nella quale rivivono i sussulti space-psichedelici del progetto Harvestman. Che dire: ottimo, perfetto, un'interpretazione sublime, al servizio di brani senza tempo. Se tutto l'album si fosse adagiato su questi livelli, il nostro giudizio sarebbe stato senz'altro entusiastico.
Ma “Songs of Townes Van Zandt” getta anche delle ombre: Scott Kelly, che pure si difende bene, mostra nelle sue rivisitazioni qualche incertezza in più; il suo operato appare leggermente più ingessato, non entra egli, in definitiva, dentro alle canzoni come fa il suo fratello neurotico, ma si limita ad ammaestrarle pagando il dazio dei propri limiti, sia esecutivi che interpretativi. La sua voce non vibra, non scivola fluida, le sue dita continuano a pesare chilogrammi sulle fragili corde di una chitarra acustica: il Kelly cantatutore in realtà non esiste, la sua performance sembra una trasposizione acustica dei suoi Neurosis (e questo già si capiva dalle sue prove soliste), come se per lui non fosse così naturale emanciparsi dalla dimensione elettrica. E così la pur bellissima “St. John The Gambler” ci appare in una veste affaticata, fatta di arpeggi elementari (ipnotici fintanto che non avrebbero sfigurato in un album come “A Sun that Never Sets”), condotta da una voce che si strascica in avanti alla ricerca del giusto posizionamento, ma non sempre trovando la quadratura del cerchio. Stessa cosa si può dire per “Lungs” che vede al suo interno umbratili strisciate di distorsioni elettriche, che se certo non sovvertono l'impostazione acustica dell'album, vengono senz'altro a rimarcare lo stretto legame con il modus operandi impiegato in seno alla band madre. I sette minuti di “Tecumseh Valley”, infine, sono altri sette minuti molto buoni, epici, paesaggistici, visionari, ma resta la sensazione che la magia stia tutta nella scrittura di Van Zandt.
C'è poi quella vecchia volpe di Wino, che si unisce alla combriccola (il collegamento è probabilmente la pubblicazione nel 2009 dell'album omonimo degli Shrinebuilder, progetto condiviso con Scott Kelly), facendo però storia a sé: il suo canto nasale ed alcolico si discosta dalle cupe e malinconiche dissertazioni degli altri due, il suo approccio alla chitarra è più sbrindelloso e marcio, il suo personale tributo a Van Zandt ha più l'aria di una jam-session da blues del deserto che un'intima perlustrazione all'interno dei corridoi dell'anima. “Rake” squarcia il manto della notte per far filtrare la luce e l'arsura di un sole ostile ed accecante. “Nothin'” e la conclusiva “A Song For” sono altre due cavalcate che sanno di sabbia, cactus, polvere e whisky, ma anche qui vale il discorso fatto per Kelly: è la forza intrinseca degli originali a prevalere, Wino non ci restituisce altro che la sua onesta (ma anche didascalica) interpretazione, non portando un reale valore aggiunto.
E' il genio artistico di Van Zandt quindi ad emergere prepotentemente fra i solchi di queste nove ballate (per altro selezionate senza alcuna pretesa di esaustività), sebbene rimanga la certezza che agli interpreti non si possano rivolgere critiche troppo dure, considerata la dose di sentimento e passione gettata nell'operazione (operazione, detto per inciso, voluta fortemente dal tour manager dei tre musicisti Ansgar Glade). Brani eterni, di cui si intuisce l'enorme potenziale senza nemmeno averli ascoltati, tanta è la loro bellezza ed attualità; piccoli saggi di una sofferta precarietà, di un oblio solitario, rilucenti di uno splendore intrinseco e senza tempo, un'emotività incandescente e tormentata, funestata dalla depressione e dall'abuso di alcool, che si estrinseca attraverso visioni, sensazioni, descrizioni di paesaggi, ambientazioni rurali, semplici storie, il radicamento alla terra natia, il senso di isolamento rispetto a tutto: una poetica selvaggia ed al contempo fragile, quella di un'anima straziata in cui si rispecchiano le sempiterne afflizione dell'uomo, l'amore, la solitudine, la morte. “Songs of Townes Van Zandt”, pertanto, non è solo l'occasione per riscoprire una penna che ha scritto alcune delle pagine più intense della storia del cantautorato americano, ma anche un fiore che si dischiude poco a poco, dentro di noi, un ponte verso di noi, un tuffo nella nostra interiorità, l'invito a cavalcare su cavalli immaginari, sellati di malinconia e disincanto, il richiamo a compiere nella solitudine, con non altro che le nostre risorse, questa complicata traversata che è la vita.
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