A tratti graffiante, a tratti contenuta, rassegnata e dolce.

La voce di Scott accompagna le intuizioni dei Wildabouts, nelle diverse tracce che mostrano varie sfaccettature sulla superficie del rock n roll.

Softdrive Records, la sua etichetta con la quale il progetto nasce.

"Registrare Blaster è stato rinvigorente ed eccitante. Mi ha riportato alla mente lo stato d'animo che ebbi all'uscita dei primi due album con gli Stone Temple Pilots".

Trovo irresistibile la cadenza del leader sulle note di Way she moves e Amethyst. Prova del dinamismo capace di far spaziare la grinta espulsa dai pezzi più pop a quelli sul binario dei riff trascinanti.

Si, perché Jeremy Brown (chitarra solista) è anche un protagonista onnipresente per tutta la durata del disco.

Il giovane musicista morì il giorno precedente all'uscita dell'album, segnando profondamente l'andamento del tour e le menti dei suoi compagni, delineando un clima insopportabile che per uno scherzo del fato culminerà con la fine della band e in primis, con quella di Weiland.

Quest'ultimo era già segnato, come la stampa ben sa, dagli avvenimenti personali e i disagi che il suo stile di vita ha comportato, testimoni alcune delle varie esibizioni postate sul web.

Un'azzeccata 20th century boy presa in prestito da Bolan e soci riporta alla mente gli episodi vigorosi di maggior rilievo nella tracklist, con le ruggenti Youth Quake e Modzilla.

Gli strumenti della band sono ben registrati e riescono a trascinarti su sentieri old school che non guastano, ma la ciliegina sulla torta resta per me l'ultima traccia Circles.

Un cerchio si chiude ed è ora dei saluti.

Circles significa davvero tanto per me e scriverne qualche riga non mostra neanche un briciolo delle emozioni che provo a risentirla.

I due, precedentemente citati musicisti, qui chiudono le danze e l'ultima fiamma lentamente cala e sbiadisce nel vento, dignitosa e travolgente.

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