Mark Lanegan è notoriamente uno dei musicisti più carismatici nell’intera scena musicale, grazie a una voce unica e a capacità di scrittura strabilianti. I suoi alcolici dischi cantautorali ne hanno fatto un moderno Johnny Cash, le sue scorribande elettriche con i QOTSA e la Lanegan Band ne hanno certificato la statura anche presso le nuove generazioni rock, e persino la critica più à la page lo ha osannato per il recente lavoro con Isobel Campbell. Tutto giusto.
Eppure pochi ricordano che il tenebroso Mark viene da lontano, precisamente da Ellensburg, stato di Washington. Dove nel 1985 formò, assieme ai fratelli Conner, gli Screaming Trees, uno dei gruppi più sottovalutati di quella irripetibile stagione che portò il Nord Ovest degli States alla ribalta per qualcosa di più significativo della Boeing o di Twin Peaks. Della nidiata sviluppatasi attorno alla fatal Seattle gli Screaming Trees furono cronologicamente tra i primi a creare quel pastiche tra hard rock, psichedelia e punk che convenzionalmente costituisce il grunge, con una serie di album davvero magici, usciti alla fine degli anni 80 per la regina delle indie labels americane, la SST.

L’alchimia sonora degli Alberi Urlanti poneva meno l’accento sull’hard di matrice zeppeliniana come i Soungarden o i Mother Love Bone, per focalizzarsi sul punk: sia nel grezzo e deragliante Detroit garage di derivazione Stooges, sia nell’accezione plumbea ed eclettica dei Black Flag. Fondamentale e personalissima era inoltre la componente psichedelica: dovuta ai riverberi lisergici che si sprigionavano dalla sei corde di Lee Conner, e alla lancinante e profonda voce di Lanegan, capace di creare stranianti allucinazioni doorsiane: si pensi alla spettrale visionarietà di “Grey Diamond Desert”, apice del loro terzo album  “Invisibile Lantern”.
Il successivo “Buzz factory”, uscito nel 1989 per l’etichetta di Greg Ginn prima dell’inevitabile approdo major, è forse l’opera più matura del quartetto, portandone alla perfezione il sincretismo grunge. Brani come “Where the twain shall meet” o “Black sun morning” (già il titolo dice quanto questo pezzo abbia influenzato i Soundgarden di “Superunknown”…) fanno ancora sobbalzare all’ascolto, per la mostruosa maestria del quartetto nell’inserire polverose schegge psichedeliche nella scorza dura dei Black Flag, con il vocalist maestoso nel plasmare la torrida materia sonora, ricavandone sontuose e malate melodie.
Altri apici di questo seminale album, prodotto da Jack Endino con la consueta abilità nello stampare ruvide fotografie sonore, sono “Subtle poison” (i desolati accordi “I Wanna be your dog” in anfetamina), ”End of the universe” (stentoreo e intricato groviglio di chitarre fuzz) e ”Wish bringer” (pura psichedelia metallica). Menzione speciale anche per lo spleen desertico di “Yard trip # 7”, avvolta dall’apocalittico timbro vocale di Mark, e pietra d’angolo per molte divagazioni stoner del decennio successivo e per il folk-psichedelico in chiave heavy di “Too far gone”: così avrebbero suonato i Buffalo Springfield se si fossero formati a Seattle negli anni 80.
Benché fossero venerati dai colleghi della scena (Cobain, Cornell e Staley fecero a gara per collaborare con Lanegan), e nonostante gli album major fossero eccellenti (in particolare “Uncle anesthesia” del 1991), il successo non arrise mai agli Screaming Trees, a parte la breve parentesi della colonna sonora di “Singles” (grazie alla suadente “Nearly lost you”).
Restano pertanto uno dei segreti meglio incastonati tra i fiordi del Puget Sound.

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