Torme di discografici, a mo' di questuanti, accorrono alle porte di ville miliardarie con fare mellifluo e arrendevole, pronti ad esaudire ogni tipo di desiderio, grottesche caricature di geni della lampada. Un esercito di b.r.a., spesso incline a stravizi d'ogni genere, viene così circuito, coccolato e molto lautamente foraggiato affinché confezioni un compitino almeno ogni due anni da dare in pasto a nutrite schiere teen-agers a cui viene praticato con regolarità il lavaggio del cervello.
Invece, autori talentuosi, irregolari, dotati di una spiccata personalità e di un non disprezzabile bagaglio culturale, come Green Gatside, mente e anima degli Scritti Politti, sono costretti a rimanere al palo, a pubblicare 2 album in 18 anni (!). Le ragioni di tutto ciò, visto che nel mondo del music-biz i numeri, i pezzi venduti, i manager in giacca e cravatta contano in modo ormai quasi assoluto, sarebbe pleonastico spiegarle. Nel caso di Green inoltre ci sono delle "aggravanti" rappresentate sia dalla sua fama di autore rompiscatole, "polittico", sia dal suo essere piuttosto pigro, sfasato, del tutto inadatto a rispettare i ritmi e le consegne delle leggi di mercato. Così, come nel gioco dell'oca, il nostro è tornato alla casella di partenza, la benemerita Rough Trade con la quale debuttò nell'ormai lontano '82 con "Songs To Remember".
L'aria di casa Farina ha indubbiamente rigenerato Green, che ha potuto scrivere canzoni senza avere sul capo "la spada di Damocle" dell'hit a tutti i costi. L'ansia da prestazione non solo lo aveva portato sull'orlo dell'esaurimento nervoso, al panico da concerto, ma gli aveva fatto compiere scelte artistiche non sempre all'altezza della sue capacità di songwriter. Si può senz'altro affermare che il recente "White Bread Night Beer" ci riconsegna un autore che troppo frettolosamente qualcuno aveva relegato nello sciame multicolore delle meteore degli eightees. Soprattutto Green mostra di essersi liberato da quella gabbia nella quale lo avevano condotto e che forse anche lui stesso aveva contribuito a costruire, cercando testardamente la riproposizione del suo schema-canzone classico; modificando a volte semplicemente la "salsa" di accompagnamento, come avvenne con l'hip-hop o col reggae del precedente (1999!), altalenante "Anomie & Bonhomie".
Che il piglio sia cambiato e che nella ritrovata vena creativa nuovo fluido vitale sia tornato a scorrere te ne accorgi subito; basta ascoltare i primi due minuti della sorprendente "The Boorn Boorn Bap": sapori dub, campionamenti ben calibrati, un caldo e avvolgente mood da club e l'inconfondibile voce del nostro che piazza il ritornello assassino. Ma la maggiore novità, se così si può dire, dell'album non è rappresentata tanto dall'indovinata vena similbristoliana, pacatamente elettronica, testimoniata anche dall'ottima "Petrococadollar", pugno di ferro in guanto di velluto, quanto il rifarsi a modelli musicali della sua formazione adolescenziale, prepunk. I vinili del dream-pop californiano, Brian Wilson semper docet, del folk anglosassone, ma anche gli evergreen di Wyatt sembrano essere stati rispolverati dalla cassa dei ricordi. L'atmosfera prevalente di "White Bread Black beer", quindi, risulta distesa, intima, con brani come "Dr. Abernathy", "Snow in Sun", "Robin Hood" che danno la netta sensazione di artista che parla a cuore aperto, che si rivela senza infingimenti.
Nell'ultimo brano dell'album, la collocazione non è mai casuale, il citato "Robin Hood", Gatside afferma: "I dream of ending these dreams of mine" ("Sogno di porre fine ai miei sogni"). Penso ci sia molto di lui in questa frase, e del vecchio e del nuovo Green, tra "il pane bianco" della speranza e "la birra scura" della disillusione. Diamogli una mano a non divenire cinico.
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