La musica di Seal è molto particolare: un pop in cui si fondono sonorità contemporanee, spesso ammiccanti al dancefloor, a melodie e lirismo quasi ancestrali, conferendo al tutto un'atmosfera misteriosa e affascinante.
Questo disco è del 1994, e segue l'omonimo del 1991 (ci sarà una altro omonimo datato 2003, "Seal IV", il ragazzo ha fantasia per i titoli, n.d.r.). Pur avendo quasi raggiunto i suoi bei tre lustri, l'album, per essere pop music, risulta ancora fresco e attuale. Soltanto a tratti riecheggia chiaramente il sound dei "nineties", e comunque mai in modo molesto. Alla produzione c'è il genio di Trevor Horn, re mida del pop inglese, e il tocco si sente.
La prima traccia, "Bring it on", si apre con la voce rauca e riverberata di Seal seguita da un attacco pompato in stile funk. Particolarmente bello il giro di basso incrociato con il riff di chitarra sottostante. Segue il primo singolo, la bella "Prayer for the Dying", una canzone costruita su una successione di accordi dolci la cui intro è stata ripresa in modo imbarazzante qualche anno dopo in "Due Destini" dai pur bravi Tiromancino. Degna di nota anche "Don't Cry", ballata soffusa in cui la particolarissima voce di Seal è si sdoppia in cori elaborati.
"Fast Changes" ci porta improvvisamente un'atmosfera quasi new age, con arpeggi di chitarra a disegnare linee armoniche tanto belle quanto complicate. La schermaglia tra basso acustico e flauto traverso che arricchisce il tutto fa di questa canzone il miglior episodio dell'album.
"Kiss from a Rose" fu il secondo singolo, multimilionario anche grazie al suo impiego nella colonna sonora del "Batman" dell'epoca. In questa canzone si avverte in particolar modo quella commistione tra antico e moderno di cui parlavo sopra, essendo una ballata dal gusto quasi celtico. Nella parte finale dell'album spicca la dance irresistibile di "Newborn Friend", che se non sbaglio fu il terzo estratto. Il disco si chiude e ti lascia l'impressione di un lavoro veramente ben fatto, con quattro-cinque canzoni molto belle e le restanti comunque di alto livello, senza momenti di cedimento.
Una cosa che mi ha sempre colpito in particolar modo di questo album è il booklet interno; abbastanza scarno, campeggia un primo piano del volto sfigurato di Seal e poco altro sullo sfondo bianco. Al posto dei testi qualche riga in cui il nostro amico spiega il perché della loro assenza. In quelle righe si avverte l'intenzione, generalmente estranea al mondo da cui proviene il cantante, di lasciare che l'ascoltatore dia un proprio senso a ciò che viene espresso dalle parole della canzone, anche correndo il rischio che queste vengano del tutto travisate. Perché in fondo cosa c'è di più bello che lasciare che la musica ci porti in territori soltanto nostri, lontano da ogni influenza esterna? L'unico vincolo di senso concreto reale alla fine è il testo scritto di una canzone, e il tentativo di Seal, che riesca o meno, è proprio togliere quell'ancora alla canzone. Per quanto nell'ambito pop le liriche lascino il tempo che trovano, comunque possono svolgere una funzione sottilmente manipolatoria.
Ironico che in fondo testi mai stupidi e anzi carichi di significato come quelli di Seal "paghino" questa scelta particolare.
Voto: 4,5/5
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