L'indolenza tipica di un fuoriclasse che produce capolavori sovrappensiero.

Pur rinnegandosi spesso, Seal ama specchiarsi. Non per vanità. Semplicemente per sentirsi al sicuro, per non compromettersi.

Ha una voce unica, pazzesca, ma per chi vi scrive non ha mai rappresentato una discriminante: ce l'ha, se la tiene, probabilmente lui ne ha la stessa percezione. In fondo, che gli costa: gli esce così, libera, spontanea.

Il disco, denominato 'Seal' in aperta omonimia con l'album di debutto tanto per depistare gli utenti più disattenti (gli addetti ai lavori gli etichetteranno un "II", così, d'amblè), supera il predecessore per pulizia di suono e cura dei dettagli, ma non ne ha la stessa complessità. Ne persegue gli intenti, certamente: un pop infarcito di soul ed elettronica, che strizza l'occhio ad una velata acustica, sempre e solo accennata.

Prima che "Kiss From A Rose" spaccasse, Seal era nicchia. Come spesso accade, il brano non fu una prima scelta. "Prayer For The Dying", brano senza tempo orecchiabile e potenzialmente radiofonico (anche se denota una certa impazienza nell'esecuzione, che non sfugge all'ascoltatore più attento) ebbe l'onore di aprire le danze. Rispetto a "Crazy", "Killer" e compagnia cantate, Seal appre meno sciolto, ma più concentrato e sicuro.

Il disco si dipana con macelata frenesia : "Bring It On" è un'ottima overture, chi vi scrive la adora da sempre. Spiazza, perché nel decorso dell'album un ritmo così sostenuto non verrà quasi mai più proposto.

Seal è serio, non gioca. Non concede pause. Si fa corrucciato ma sempre sbrindellando ottimismo in "Dreaming In Metaphors", una riflessione che potrebbe indisporre perché seguita dalla melensa ma, nonostante tutto ben definita, "Don't Cry" (dai, ve lo confido. Su 'I hear your voice on the phone', sento un brivido).

"Fast Changes" è una filastrocca, un gioco. "Kiss From A Rose", invece, piace perché Seal si aggrazia. La melodia è certamente piacevole, ma a rendere il brano unico è la delicatezza con cui l'artista prende letteralmente per mano l'ascoltatore, lo fa sedere, gli si inginocchia davanti e per lui e per lui solamente canta. Però, per dire: le mie corde vibrano il triplo sulla magnificenza di "Newborn Friend", dove musica e testo si permeano alla perfezione ('If I chant for happiness, maybe that will make me feel better. I can't changes my ideals, I can't put out the fire. Ohh, if I chant for happiness, maybe that will bring us together'. Brrrr.).

Sopraffina, variegata e ottimamente selezionata la chiusura : la rassegnazione di "If I Could", duettata con Joni Mitchell, la recriminazione di "I'm Alive" (serve pazienza, ma il brano merita un ascolto approfondito; è orecchiabile solo in parte, ma brilla di luce propria) e, permettetemi, un pò come il dolce, il meglio arriva alla fine. La reprise di "Bring It On" è sublime, e non vedi l'ora che il cd ricomponga e riparta, per l'appunto, guarda caso, da "Bring It On".

Seal canta l'amore, da sempre, ma in vita ne ha ricevuto poco, questo mi vien da pensare. Anzi : credo il ragazzo sia borderline alla depressione. Ne sente il fetore, senza mai caderci dentro.

Per questo, appare stanco, il più delle volte. Per questo, cover a parte, impiega sempre manciate di anni per sfornare materiale inedito.

Per questo, anche quando si sdolcina, non riesce a scrollarsi di dosso quell'ombra di tenebra che rende immortali i brani di questo disco.

Ed è per questo che, brano dopo brano, Seal, come un bambino, si lascia prednere per mano da Trevor. Perché da solo non ce la farebbe mani, e finirebbe per detestarsi.

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