I texani e molto religiosi James Seals e Dash Crofts sono stati un duo country rock, attivo e di successo (al di là dell'Atlantico) per tutti gli anni settanta. Quest'album del 1975 è il settimo di carriera: Seals è quello con pizzetto e coppola, compone la maggior parte dei testi suona le chitarre e canta con una voce molto nasale, da baritenore. Crofts è il mandolinista, compone le musiche insieme al socio e canta con una voce calda e baritonale.
Il disco in questione è delizioso... certo lo è espressamente per chi ha gli enzimi giusti per gradire il soft rock, il folk, le atmosfere semiacustiche o acustiche del tutto, magari soprassedendo a buonismo ed invadente religiosità che comunque sono circoscritti ai testi e perciò poco o nulla incidono qui per noi italiani. I due sanno suonare, cantare ed armonizzare fra di loro molto bene, i musicisti assoldati per accompagnarli sono di prima scelta (ad esempio David Paich e i fratelli Porcaro che in seguito formeranno i Toto), la produzione di Louie Shelton è sontuosa.
Un difetto dell'album è quello di cominciare con l'episodio più insipido, quello che intitola il lavoro e che a suo tempo entrò pure nella classifica americana come singolo, ma mi risulta dolciastro e antiquato. Si viaggia già meglio col secondo contributo "Golden Raimbow", giocato sul tappeto morbido del piano elettrico e sui gustosi contrappunti jazzati della chitarra, nelle mani del produttore.
L'opera decolla col terzo brano "Castles In The Sand": i ceselli di chitarra dodici corde e di mandola sono preziosi e argentini, registrati e missati con classe sopraffina. Le strofe viaggiano in un'insolita ma impeccabile scansione in sette ottavi e si risolvono in un ritornello a tempo di valzer di tre quarti, il tutto con un gusto ed una rotondità che preservano perfettamente l'accessibilità e la musicalità dell'insieme, rinforzata vieppiù dalla consumata abilità dei due titolari nell'armonizzarsi con le voci.
Bella anche "Blue Bonnet Nation", un rock moderato e compatto che dispiega il lato più ritmico e (vagamente) bluesato della loro ispirazione. Sono sempre arrangiamento ed esecuzione, in professionalissimo stile californiano (studio d'incisione e musicisti di contorno sono di Los Angeles) a fare la differenza.
"Ugly City" è effettivamente un poco ugly (bruttina, poco gradevole) per via della voce chioccia di Seals, ma poi segue la magnifica "Wayland The Rabbit", cantata con rigoglioso trasporto e calore da Croft. Esordisce con un'atmosferica intro orchestrale, sulla quale irrompe il ricco arpeggio in minore della chitarra acustica, che accompagna la lunga rimembranza di gioventù del mandolinista, con la scoperta della morte (di un animale), del dolore e del pianto adulto (di suo padre). Alla seconda strofa entra di rinforzo anche l'orchestra, arrangiata con precoce competenza dall'ancora ventenne David Paich, qui al primo ingaggio importante di carriera. E' una canzone un po' triste e quindi non per tutte le occasioni, ma veramente toccante.
L'album prosegue con il brillante strumentale "Freaks Fret", un saggio chitarra + mandolino d'alta scuola e notevole coesione, per poi concludersi con la solo piacevole "Truth Is But A Woman" e l'estesa, gloriosa, accesa "Fire And Vengeance", intenso congedo di un lavoro fra i più riusciti nell'ambito di quella decina da loro pubblicata.Carico i commenti... con calma