Rifiuto di una società corrotta, del consumismo, dei vizi di una civiltà decadente, o fuga dal "mondo del lavoro", dalla propria esistenza, dalle responsabilità? Ricerca del proprio Io più profondo o fuga da sé stessi, dal proprio umano dolore?

Questo è il pesante enigma cui si pone di fronte questo film, amleticamente indeciso tra genere biografico, "romanzo di formazione" e road movie con maniere da beat-generation; anche se l'autore Sean Penn sembra voler fortemente (e forse anche un po' ingenuamente) distaccarsi da ognuna delle sopraelencate etichette, in particolare direi dall'interpretazione "tossica" (il viaggio, il trip, eccetera..).

Il film narra la vicenda realmente accaduta di Chris McCandless, americano della Virginia, il quale terminato il college decide di trascorrere un periodo "into the wild" appunto, un viaggio in solitaria verso "L'Alaska"; una Mecca più che una meta vera e propria, il cui vero scopo è proprio il viaggio solitario e non l'obiettivo.

Ventenne, Chris "Supertramp", così si è autoribattezzato l'eroe, abbandona una brillante carriera universitaria (e una situazione familiare turbolenta), per compiere questa sorta di viaggio iniziatico in piena immersione nella natura e in ascetica, contemplativa solitudine, senza soldi, senza un mezzo di locomozione.

Ai margini di una società americana in balìa di menzogne e Bush-ie di un sogno ormai forse in fase terminale, comunque preda di paure o fobie terroristico-apocalittiche.

Il film si compone di personaggi non indagati interiormente, che parlano a cuore aperto come aperti sono gli spazi, i deserti e le vallate (a tratti un po' da spot della Chevrolet) attraverso cui si dipana questa pellicola.

Per perseguire la sua "grande avventura in Alaska", Chris rifiuta l'aiuto di persone incontrate lungo la via tra cui una vera e propria offerta di lavoro avanzatagli da un vecchio artigiano in pensione (uno splendido Hal Holbrook in assetto da Oscar), Chris tira dritto finchè può tra mille peripezie (sorpreso e pestato da un capotreno, ospite di una vecchia coppia di hippies girandoloni, cotto di una che alla fine non riesce a chiattarsi), per realizzare con fatale ritardo che "la felicità è reale solo quando è condivisa". Una strada solitaria che lo porterà infatti purtroppo a morire di fame ("starvation" è la causa ufficiale della morte), a 6 miglia di distanza dal più vicino centro abitato.

Into The Wild - Nelle terre selvagge è un film che spinge sull'acceleratore della libertà, che butta un occhio ai clichès del cult movie, a rivelarlo è la presenza di scene futuribilmente memorabili (Chris che sfida il vecchio Ron a seguirlo sulla collina), di frasi-massime a profusione ("La fragilità del cristallo non è una debolezza ma una raffinatezza", "Non mi servono i soldi, rendono le persone prudenti"... e via così allegramente), è un film senza dubbio sofferto, costato la bellezza (in tempi cinematografici non è neanche molto forse) di 10 anni di attesa e impegno al testardo californiano Sean Penn prima di poter acquisire i diritti sul libro.

In definitiva questo film si lega al filone di opere come "Grizzly Man" di Herzog, o - anche se in diverso rapporto - "Apocalypto" di Mad-Mel Gibson; films specchio di una nicchia - o di una certa tendenza - della società statunitense, che si trova a cercare "un nuovo inizio", un rifugio proprio in quella che per millenni è stata il nemico da combattere, la potenza da arginare per sopravvivere, la natura selvaggia. Senza volere per forza avventurarsi in una dissertazione filosofica, appare chiara, anzi palese la crisi di coscienza che l'America sta attraversando in questo momento, e da cui dipende anche - e non poco - la futura situazione economica e quindi sociale ad est dell'Atlantico.

Cazzo Cazzo.

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