"Il dolore merita infinito rispetto, tempo preciso e musica che lo accompagni"
"Harmacy" è un salvadanaio rotto: ci sono le monete. . e ci sono i cocci.
Le monete sono piccoli tesori di musica che ai "grandi" non interessano granché, perché hanno (apparentemente) poco valore: hanno una lucentezza un po' sgangherata, quella della bassa fedeltà, non ci tengono a fare bella mostra di sé, non si perdono in virtuosismi, in finezze chitarristiche o ricercatezze sonore. Molte sono solo i sussurri di un ragazzo dagli occhiali spessi, dall'aria un po' imbranata, che non puoi fare a meno di immaginare chiuso nella sua camera da letto, seduto per terra a scrivere canzoni d'amore per una ragazza che, se mai l'ha amato, ora non lo ama più ("Perfect Way", "Willing To Wait"). Alcune di queste monete gli sono rimaste in tasca come ricordi di qualche viaggio. Certe sembrano addirittura arrivare dalla terra dei piccoli dinosauri ("Beauty On The Ride"), anche se è il 1996 ed è passato tanto tempo ormai. Altre, infine, hanno il sapore agrodolce di una filastrocca senza lieto fine ("Ocean").
Tutte, rare e preziose, sono solo pochi grammi di chitarra e voce. Una chitarra e una voce gentili.
I cocci sono canzoni taglienti e ruvide, finite un po' ovunque, come le biglie. E sembrano tante marachelle del solito Loewenstein, la mente più "pixiana" del gruppo: quasi a voler lasciare che le chitarre digrignino un po' i denti, dopo tanta pacatezza. Quasi a voler fare un pò di posto anche alle grida, accanto ai sussurri. Alcuni cocci durano poco più di un tiro di sigaretta con cui sfogare la rabbia ("Love To Fight", "Crystal Gipsy"), altri sono approcci trasandati, bozze di temi che trovano la loro bellezza nel non essere state corrette ("Hillibilly II"), altri ancora sono solo un pretesto per divertirsi e fare un po' di casino (la cover di "I Smell A Rat").
"Harmacy" è come quei vetri che, se colpiti, non si rompono, ma si fanno mosaico, ragnatela di centinaia di frammenti, gli uni incollati agli altri, ognuno diverso dagli altri. Forse non è il capolavoro dei Sebadoh, e forse è troppo frammentario, troppo discontinuo, "incoerente", ma è un disco che ti fa stare bene ad ascoltarlo.
È un gomitolo di tristezza e di cose che vanno o sono andate storte, in cui, però, c'è posto anche per la sottile ironia, per un pizzico di misoginia ("Look, baby, I'm not a mind reader: you're gonna have to tell me so you're lookin' down at your shoes again"), e per quella voglia, che qualche volta ci si è sentiti crescere dentro, di mandare al diavolo persino l'amore della propria vita ("The way you are, that's the worst thing you could do").
Ma, soprattutto, c'è quella sensibilità, quasi troppo partecipe, con cui Barlow racconta di difficoltà ed incomprensioni ("If there's a right thing to say, I'm sure I missed it by a mile"), di mancanza di dialogo ("Silence's like disease, but I dare not say it hurts"), di impotenza e frustrazione di fronte a rapporti che vanno a puttane senza che nessuno realmente lo voglia.
"Harmacy" è solo l'insegna rotta di una farmacia irlandese, ma, forse, è anche una parola e un posto che non esistono (il "dolorificio"?!), in cui, ogni tanto, non si può fare a meno di ritornare.
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