Fine anni '90.

La mia vita era fatta di calcio, musica, amici, qualche pomiciata saltuaria sulle panchine della Feste dell'Unità e un mare di pippe. Ma veramente tante.

I pomeriggi nella colorata provincia senese erano di una noia allucinante. Mark Zuckerberg era ancora uno squattrinato onanista come tanti, a casa la mamma rompeva il cazzo a dismisura e gli allenamenti cominciavano alle cinque (anche se già sapevi che sarebbe magicamente comparso il classico dolorino alla caviglia visto che non era venerdì, non si faceva la partitella e che toccava correre e scattare per due ore in tondo manco fossimo stati la nazionale keniana di atletica). Meno male c'era il bar, in quei periodi stipato più o meno come i provini amatoriali per entrare a far parte dell'industria pornografica italo-ungherese.

Finiti i Simpson, sacca da calcio a tracolla, mi fiondavo imperturbabile allo storico Bar Lume (nome a dir poco geniale) di Ettore e Giancarlo. Cento passi (vabbè forse erano il doppio ma così fa molto più cinema) e la porta a nastri rossi e verdi compariva davanti a me. Ho sempre amato le porte a nastri. Entravo lentamente coi nastrini che mi carezzavano il volto e le spalle come in un abbraccio fraterno, posavo la borsa vicino al portaombrelli, salutavo Ettore e mi dirigevo lesto lesto all'estrema sinistra, nel reparto bische clandestine, ad elemosinare quelche soldino a mio nonno. Non mi copriva certo d'oro (duemila era la costante) ma capitavano giornate fortunate dove, bramoso di pescare quanto prima la carta utile per chiudere a Scala, mi faceva rovistare ingenuamente nel suo portafoglio: diecimila era la costante.

Col bottino nelle tasche la destinazione era una soltanto: il seminterrato adibito a saletta videogiochi/reparto giovani/fumatoia intensiva. Gli scalini erano una decina e, ogni passo in giù che facevi, l'umidità era direttamente proporzionale ai moccoli che risuonavano nell'aria. Il buio era sacro. Non che la luce non ci fosse, solo che se provavi ad accendere qualcosa di diverso dal neon sopra il biliardo ti ritrovavi in men che non si dica appeso all'attaccapanni a contare i punti. Gli oculisti del paese ancor oggi ringraziano. La saletta era un santuario del luogo, considerato patrimonio dell'Unesco al pari del centro storico di San Gimignano, diciamo. Vi si potevano trovare indistintamente: evoluti homo erectus attaccati ai vari flipper cicchino in bocca e ascella commossa; bulletti del quartierino, pseudo-giocatori di biliardo, in singolar tenzone tra di loro per la custodia del territorio; odalische affogate nel fondotinta che battevano le manine ad ogni colpo steccato del proprio beniamino; novelli mecenati costretti ad un duplice ruolo: inserire moneta per promuovere la disfida e fungere da gessetto umano per le stecche da gara. E poi c'eravamo noi, adulatori del giuoco del pallone in tutte le sue forme, virtuali e non, in realtà umili fruitori dell'unica postazione che sovente rimaneva (incredibilmente) libera: Virtua Striker 2.

Tutto era terribilmente elementare ed affascinante. Un'ipnotico lampeggio ''insert coin'' (che tra l'altro furono le prime due parole in inglese che imparai in vita mia, ancor prima di tènchiu e di supercalifragilisticexpialidocious), due giocatori (contro il cpu era una palla pazzesca) ognuno col suo joystick e tre tasti di cui almeno quello del tiro funzionante. Mettevo le 500 lire, sceglievo la squadra (in genere Olanda o Inghilterra) e aspettavo l'arrivo degli altri. L'atmosfera era grandiosa, la grafica mastodontica in tutto, dagli stadi ai giocatori passando per i dettagli ambientali come il terreno e le cartacce a bordo campo stile Sudamerica. Non avevo finito ancora la prima partita che arrivava Giacomino. Non salutava nemmeno; inseriva e domandava, quotidianamente: ''Chi piglio?'' ''Chi vòi...tanto buschi lo stesso!''. 

Via via ecco tutti gli altri. Chi vinceva regnava e, se ti intestardivi a fare il patriota con l'Italia, il solco saletta-bancone assumeva ben presto i contorni di un sentiero di caccia. Il Brasile e la Francia erano nettamente le più forti. Prenderle significava probabile vittoria ma poi venivi smontato da quelli che: ''...facile col Brasile, eh?''. C'era anche chi, offuscato dalla leggenda metropolitana che la Nigeria fosse imbattibile quando giocavi col computer, stanco dell'ennesima batosta, sceglieva gli africani, salvo poi prenderne il doppio e pentirsene amaramente. Se vincevi con l'Arabia venivi portato in trionfo fino alla piazza del municipio e offerto in dono al Dio Ronaldo. Ma la cosa più spettacolare era quando il match finiva ai rigori. Per non far vedere all'avversario dove avresti tirato, le tecniche erano le più subdole e disparate: usare il corpo o un indumento di spessore per coprirsi era quella più legittima; muovere forsennatamente il joy a destra e a sinistra battendo a caso risultava, statistiche alla mano, la meno fruttuosa; ''Ehi! Guarda chi si rivede!'' e tiravi a tradimento era ottima ma la potevi usare al massimo due volte al giorno. La mia preferita, nonchè quella più produttiva, rimaneva sempre il soffio di sigaretta negli occhi appena prima del calcio. La nebbia e il bruciore agli occhi facevano il resto. Fu così che incominciai a fumare.

Le partite si rivelavano sempre sentitissime. Poco importava se il tasto giallo di destra non funzionasse bene, se i giocatori assomigliassero più a scaricatori di porto che a veri atleti oppure se i loro riflessi fossero pari a quelli di un bradipo obeso in letargo. La quasi impossibilità di creare azioni offensive elaborate, i lanci lunghi casuali, l'utopia del gioco sulle fasce, i contropiede inutili, i tiri da centrocampo che si infilavano all'angolino nello stupore generale erano tutte pecche che venivano spazzate via dall'esaltante ed indimenticabile GOOOOOL! del commentatore. L'unica cosa che mi faceva veramente imbestialire era la valutazione dei gol data alla cazzo di cane. Voglio dire: possibile che una rete fatta da un metro, magari senza portiere, valesse a volte più di una fatta di testa o al volo dopo una bella azione? Perchè ripassare in serata e notare che il proprio gol era rimasto come best del giorno dava le sue piccole soddisfazioni, cristo!

Sono anni ormai che mi sono trasferito. Alla fine si tratta di una manciata di km ma quelle vecchie curve in salita hanno rappresentato per me, nel tempo, un muro invalicabile. Qualche giorno fa son tornato su per il funerale di uno di noi, di Giacomino. Uno stramaledetto frontale se l'è portato via. Proprio lui che ci avrà buttato un patrimonio su Virtua Striker 2. Era una schiappa, non vinceva mai; il suo unico vanto è sempre stato quello di essere primo nella top ten dei punteggi, perchè noi andavamo agli allenamenti e gli lasciavamo la partita. In testa con 10 gol fatti e 2 subiti in 5 partite. Una miseria. Potevamo batterlo con una mano sola ma nessuno di noi si azzardava.

Il Bar Lume oggi non esiste più; ora pare si chiami Roxy Bar. Che tristezza. Non volevo farlo ma dopo le esequie entro a prendere un caffè. Ordino e mi sento come calamitato verso la saletta. Scendo e le luci colorate dei videopoker mi abbagliano. Di ragazzi neanche l'ombra. Laggiù, in fondo, proprio al posto del nostro cabinato, ora ci sono un paio di tizi che fissano inebetiti uno schermo in alto con dei numeri. Delle nuvole di fumo neanche l'ombra. Mi fermo a metà scalinata come paralizzato ma nessuno ci fa caso. Mi sento a disagio. Chiudo gli occhi per un attimo e rivedo tutto al proprio posto: i flipper in tilt, il tappeto verde del biliardo sporco di birra, il muro di cartapesta scarabocchiato, le tipe sugli sgabelli col perizoma di fuori. Vedo Giacomino che sbatte il pugno sul muro incazzato nero perchè ha preso gol all'ultimo secondo. Riapro gli occhi. Risalgo. Pago. Saluto senza essere degnato di risposta mentre la porta automatica si apre all'istante, freddamente. Ho sempre odiato le porte automatiche. Finalmente sono fuori. Ho gli occhi lucidi ma non è per il gelo. Dei pomeriggi noiosi nella colorata campagna senese neanche l'ombra.

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