Novembre 1966, Venezia

L’acqua era già alta.

La marea spingeva piccole onde verdastre increspate dal vento di scirocco oltre il bordo del canale, verso la fondamenta.

Io e Fabio eravamo lì, con le spalle appoggiate al muro di pietre viscide, a guardare le porcherie che galleggiavano vicino ai nostri piedi.

L’umido saliva, portato dalla moscia bava del vento, fino alle gronde degli edifici alle nostre spalle. Non c’era scampo.

Fabio parlava agitando le mani e trasmettendo, amplificata, la sua alla mia angoscia: bloccati come due coglioni con le spalle al muro, e la marea che saliva tutto intorno, sopra di noi il cielo sbiadito e, di là del muro, fantasmi di edifici vuoti e informi.

- E adesso spiegami come usciamo da qui? -

- fammi pensare -

- intanto che pensi la marea continua a salire -

- ho trovato. E’ semplice ci togliamo le scarpe e poi andiamo -

- destra o sinistra? Il tuo infallibile senso di orientamento dove ti suggerisce di andare?

- mi sembra di capire dal tono ironico delle tue parole che non ti fidi di me. Se non eri d’accordo, perché non l’hai detto prima? -

- porca troia te l’avevo detto che di qua non si arriva da nessuna parte... -

- non è vero, se c’è la fondamenta si arriverà da qualche parte -

- sbagli, questi posti li conosco bene, ci venivo da bambino a trovare mia nonna. Alla tua destra c’è la laguna nord, in altre parole acqua, alla tua sinistra c’è la laguna sud, ancora acqua, alle tue spalle il muro dell’Arsenale e davanti il canale, cioè ancora acqua, e anche molto alta -

- allora, tu che conosci questo posto, e sei veneziano con mark of origin, cosa proponi? -

- affogati -

- e poi? Tu cosa farai quando sarò affogato? -

- io nuoto -

- scemo -

- tu di più. Di sicuro -

- se mi vede qualcuno che conosco, sai che figura di merda che ci faccio, bloccato in fondamenta dell’Arsenale come un... -

- magari passasse qualcuno. Questo posto è davvero deserto, non abbiamo incontrato nessuno dalla Riva dei Sette Martiri -

- e lo credo bene. Con una giornata così chi vuoi che si muova -

- eppure ci ho messo poco per convincerti a seguirmi -

- certo che una luce così e difficile ritrovarla. Se però adesso vuoi sapere cosa ne penso, insomma, mi è passata la voglia di disegnare -

- eppure se riusciamo a trovare un punto più alto, questa è un’occasione magnifica. Guarda il colore dell’acqua e il cielo laggiù in fondo sembra tutt’uno con la laguna. Cosa dici, ci togliamo le scarpe? -

Ma come è iniziato tutto questo?

Fabio si sposta in continuazione, più che sentirlo intuisco la sua presenza alle mie spalle. Ho deciso di fare un buon lavoro, la luce è magnifica illumina tutta la parte posteriore della basilica di Torcello e sfuma sulle sterpaglie dorate fino al terrapieno dove sto seduto. L'ombra dell'albero mi tiene gli occhi in ombra e la mano scivola sul foglio senza ripensamenti.

Il tempo passa velocemente ed è solo la sete e il caldo che mi distraggono, o è stato l'improvviso silenzio nell'intercalare stridulo delle cicale a farmi girare la testa, Fabio è seduto poco lontano concentrato sulla tela dove sta tracciando segni nervosi. Non è girato verso la cattedrale sta disegnando qualcosa dalla mia parte, ma qui ci sono solo io e l'argine.

- cosa fai? -

- il tuo ritratto - dice.

Il sole è troppo alto e la luce non è più adatta a proseguire: troppo forte tanto da far sbiadire i contorni delle pietre, e cosi brillante da rendere smorto l'oro delle canne. Appoggio la tavoletta sull'erba e distendo i muscoli.

- pausa - dico girandomi verso Fabio. Ma lui continua, e mi fa segno con la mano di ritornare alla posizione di prima.

- neanche per sogno - gli rispondo e cerco di alzarmi nonostante abbia ancora il corpo intorpidito.

- ancora un momento e ho finito -

Ma prima che mi sia alzato è già al mio fianco e mi fa scivolare all'indietro sull'erba umida e calda.

Dal sentiero arriva il grido di qualcuno, è Paolo che ci chiama.

Fabio mi fa segno di tacere e stringendomi il polso mi trascina via verso le sterpi della laguna, corriamo come matti fermandoci ogni tanto ad ascoltare i richiami di Paolo.

Siamo accaldati dalla corsa e dall'orgasmo dello strano gioco tra le erbe alte dei canali. Da questa parte non si passa, di là dall'argine c'è soltanto l'acqua verde e increspata della laguna.

- e adesso si nuota - dice Fabio e inizia a spogliarsi.

- sei matto, io qui non mi butto - ma intanto lo imito e mi tolgo la maglia e i pantaloni. Restiamo un attimo fermi a guardare l'acqua davanti a noi, se mi fermo a pensare non lo faccio di sicuro, ma Fabio mi fa segno e prende lo slancio. L'impatto con l'acqua fredda e opaca è violento, per stare a galla comincio a nuotare; dall'acqua vedo le cose in modo diverso.

- siamo due coglioni - dico battendo i denti ma sono contento di averlo fatto. Fabio è vicino e nuota oltre l'ombra delle fronde verso la luce calda del sole. L'acqua ha il sapore di alga e di prugne acide.

- torniamo - dico, e cerco il punto più facile dove appoggiare i piedi per risalire.

Fabio mi precede, ma il fondo è viscido e la melma nera si attacca alla pelle, in un attimo ci ritroviamo sporchi come granchi. E' l'avventura più merdosa della mia vita. Ci rotoliamo sull'erba ma è quasi impossibile togliersi di dosso il fango nero, che asciugandosi diventa una crosta grigia e maleodorante. Abbiamo salvato dal fango solo i capelli, da una ciocca tolgo una pallina di terra con le dita, sembra la creta che usiamo per i bozzetti. Rivestiti sembriamo quasi normali. Mentre raccogliamo le nostre cose Fabio inizia a fare il pagliaccio imitando il nostro amico che cerca di noi tra l'erba alta. Di Paolo nemmeno l'ombra: è sparito, non c'è neanche alla fermata della motonave. Lo aspettiamo seduti su un muretto fumando una sigaretta. Quando attracchiamo in Riva degli Schiavoni mi ricordo del ritratto e chiedo a Fabio di farmelo vedere. Quella fu la prima volta che vidi il quadro.

Ma come è iniziato tutto questo?

Adesso mi chiedo: com’è possibile ripercorrere le cose vissute? Sono sempre state lì in qualche posto chissà dove della tua mente e quando pensi che ormai ci sei passato e che l’hai scampata, ecco qualcosa che le fa tornare, magari trasformate, abbellite o solo sbiadite e proprio per questo avvolte da una romantica aurea di oblio.

Come quel ritratto. E’ l'unico oggetto che mi resta di Fabio e degli anni passati insieme eppure rivedendolo l'ho sentito estraneo, diverso da come lo ricordavo: con gli anni era diventato un'altra cosa.

Allora, mentre quelle cose le vivevo non la pensavo così. Non c’era tempo per i ricordi, la mia vita assomigliava piuttosto alla proiezione tridimensionale e stereofonica di un'infinita serie di porcherie reali e quotidiane.

Quando pensavo - ma come è iniziata questa merda? - provavo il disagio di chi non conosce mai le risposte giuste, quelle che bisogna dare per far vedere che stai ascoltando, che sei presente, come a scuola. Di quegli anni ricordo la perplessità di chi si trova sempre con le spalle al muro senza sapere come ci è arrivato: non trovavo mai le risposte e nel contempo aumentavano le domande.

I pensieri incompleti preferivo scriverli su frammenti di carta, che puntualmente ingiallivano o si accartocciavano, abbandonati tra le pagine di un libro. Era sempre Fabio che mi riportava davanti a un dato sostanziale: hai letto, hai fatto hai dormito, hai mangiato...

Quando parlava il suo tono non era né interrogativo né perentorio, Fabio, pronunciava le parole in modo così pacato e dolce che spesso nella foga delle parole o nel turbinare dei pensieri ero costretto a fermarmi e chiedere:

- cos’hai detto? -

Diceva: - hai letto... - e questo era sufficiente. Alle sue parole dovevo trovare un seguito, i nostri pensieri erano sorretti da tali brividi di ansia che a ogni frammento bisognava aggiungerne un altro, e via di seguito fino all’ora di separarci. Non si viveva di risposte, o-che-so-io, di fatti, di cose concrete, di azioni programmate; eravamo piuttosto sempre sull’orlo dell’assoluto, del supremo, del furor, pazzi al punto da cercare nella conseguenza di un fatto la ragione di un processo, di una logica superiore. Come se nella vita ci fosse una logica, come se nei fatti e nelle azioni risultasse in modo netto, come un segno nero sul foglio, una ragione che spiegasse l’accaduto.

La nostra vita era fatta di frammenti così troppo reali che il dolore delle mani gelate dalla brina, o il freddo che saliva dalle scarpe bagnate diventavano schegge impazzite nel caos dei sensi. Cazzo-che-freddo era molto di più di una dichiarazione di collera, era come dire, cazzo-che-vita-di-merda, e con questo si includeva tutto, mescolando, come in una crema marcia e nauseabonda, l’impotenza e la forza, il coraggio e la paura. Adesso lo so, era il desiderio di qualcos’altro che ci rodeva entrambi. Anche le nostre parole per quanto essenziali e sintetiche servivano a evocare lunghi giri di frasi, percorsi troppo tortuosi per riannodarne il tracciato. Che-casino era un modo dolce, già nel suono, per dare un significato leggibile a un tormento vano e imperscrutabile del ‘vivere la vita’. Ma quando si diceva cazzo-che-sfiga si tagliava netto coi significati e le illusioni: l’uomo era segnato, il suo destino pure. I Promessi Sposi erano un ‘casino’, Romeo e Giulietta erano ‘cazzo-che-sfiga’, nel caso specifico si preferiva sempre il secondo, era più vicino al nostro modo di intendere la vita: a tinte fosche.

Adesso lo so per certo, tutti i nostri tormenti non erano solo il segno dell’età, ma di un’epoca.

Le tracce romantiche, sedimentate sulle pagine dei libri di scuola, erano il tormento dei nostri insegnanti, attanagliati a vicende di un’Italia provinciale priva di vere scosse e cambiamenti ma piena di supplizi passionali.

Il paese delle lacrime e del cazzeggio sentimentale, porcherie, ma che ti segnano la vita.

In quel frangente non potevamo sapere chi era chi o che cosa, il tempo ci stritolò comunque.

- Ma come è iniziato tutto questo? -

- io mi chiedo piuttosto quando finirà di crescere questa sporca marea -

- ok, andiamo? -

- come cazzo... aspetta, tu sei tutto matto -

- veneziano dei miei coglioni, guarda come fanno i bellunesi - E rideva, e ridevo anch’io, cosa potevo fare ormai con le gambe a mollo fino alle ginocchia?

La peata, una massiccia barca da trasporto aveva spezzato gli ormeggi, per tutta la notte la corda aveva retto la spinta della prima marea, ma l’acqua non era defluita.

All’arrivo della seconda marea il vento di scirocco aveva respinto il deflusso dell’acqua alle bocche di porto, e alla prima marea si era aggiunta la nuova, e l’acqua era salita ancora di più. Nessuno aveva avuto il tempo per controllare gli ormeggi della peata, l’acqua aveva invaso tutti i piani terra delle case e continuava a salire.

Non erano state le corde a cedere, inzuppate e tese avevano retto molto bene alle sollecitazioni impresse dalla grossa barca, si erano semplicemente sfilati i pesanti anelli di ferro dal muro marcio dell’Arsenale, e la peata si spostò lungo il canale.

Non la vedemmo arrivare, avanzava alle nostre spalle silenziosa, e per quel poco che ne so, io e Fabio facevamo tanto casino da coprire anche quel fruscio.

Fu la sorpresa più che il colpo alle spalle a farmi urlare, Fabio si girò e la prese in pieno. Scivolò sotto alla prora con un’espressione di totale stupore.

Il legno mi aveva preso di striscio e fu per questo che, appoggiandomi al muro, potei spingerla lontano da me verso il canale. Gridavo e chiamavo Fabio ma nessuno mi rispondeva, quando l'enorme peata era arrivata alle nostre spalle, lui era proprio sul bordo del canale.

Ancora oggi faccio fatica a ricordare, so che mi sono tuffato varie volte e l’acqua era torbida e ghiacciata e non si vedeva niente.

Era il 5 novembre del 1966: quella mattina la città - la mia adorata città - si ripiegò su di noi, stritolandoci nel suo fetido abbraccio.

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