L'idea occidentale di rappresentazione cinematografica naufraga miseramente di fronte a questa "cosa" di Paradžanov. Inconsideratamente il melograno rivela la profonda miseria dell'altra "messa in scena", razionale, cronologica, attinente ai fatti, che si basa su immagini e parole conformi, consolatoria, cinema di regime plutocratico al servizio di produrre il tacito assenso.

Qui non si scarica niente sul nostro groppone, e questo è già un bel gioco di squadra, ma addirittura c'è una proposta che fa capo alla notte dei tempi e parla direttamente alla nostra parte reale intangibile rinfrancandola delle violenze subite nel corso del tempo dalle possessioni psichiche e torture corporali. Quel rosso rubino crea un' isola per le entità umane che hanno assottigliato il distacco tra anima e corpo, che mette al loro posto divino le parti ridonandoci un centramento necessario per continuare la strada evolutiva di trasformazione.

Il riconoscimento di quello che ci necessita, sfrondato dagli scarti dell'ego ingannatore, è paragonabile alle visioni che abbiamo nell'immediato momento del trapasso, il film che ci passa davanti è il film che Sergej conosce: soltanto la magnificenza del Divino che è in noi viene portata come continuità nell'Aldilà, trasformando gli errori che di fatto sono mondati nel passaggio dal riconoscimento del nostro Dio interiore, reiterando così conoscenza e evoluzione.

Quale regalo più grande, da parte del regista, rappresentare la purezza di una confessione così limpida da risultare impalpabile, da escludere associazioni depistanti, dall'invitare alla frequentazione nel non-pensiero per ritrovarsi in una zona franca dove tutto è quello che deve essere.

Attraverso l'uso limitato che compete al mezzo cinematografico Paradjanov riesce a fare sentire con l'anima le immagini di coscienze che scorrono sullo schermo, non soltanto di esseri umani. L'infinito antico è rappresentato tramite oggetti, colori, tappeti, movimenti che ripropongono "promenade des etoiles". La pantomima e il silenzio creano il collante che fa quadrare il cerchio ed una culla trascendentale ci bascula in "zone rarefatte dell'essere". Si scambia il sogno in realtà, ripristinando l'immediato.

Va da sé che l'accorgimento dell'unione può sfuggire alle anime giovani, ma non importa. Qui si gioca una partita dove non può esserci competizione di sorta se non nel nostro anelito di vanità impersonale nell'individuazione di quell'unica strada che porta alla "montagna sacra", nella ricerca del salto ascensionale.

La proposta dell'armeno, come tutte le cose definitive, è spietata, qui si cerca di essere e non di apparire, tagliando una volta per tutte i rifornimenti ad energie parassitarie che ci assumono nella bambagia della menzogna.

La pellicola scorre facendo in sala inevitabilmente le sue vittime psichiche, ma anche fisiche. In alcuni passaggi si toccano punte di catarsi dove sembra di esser lì fermi da milioni di anni dove capisco che possano fiaccare più d'uno degli astanti: verrà ignorata? Non importa. Verrà condannata? Fraintesa? Non importa.

La portata di sacralità si sedimenterà anche su chi interporrà a questa visione argomentazioni apparentemente plausibili, ma ancora limitate da una visione della realtà tangibile: non è facile, cercando in ogni cosa un appiglio, non trovarne alcuno scartando così il privilegio di frequentare il nulla che ci necessita. Ognuno ha il suo percorso, per tutti verrà prima o poi l'ora, l'eternità è dalla nostra parte.

Ovviamente il delirio mistico messo su dal nostro mattacchione è incerato di quella impersonale mistificazione, fondamentale nel suggellare l'osceno, dove si scivola in mancati arruolamenti, previo rifiuto assoluto. Si dissimula la batosta che prendiamo con cotillon millenari.

L'opera, osteggiata dall'inquisizione inumana sempre presente, anche se mutilata dalla censura, vince la sua battaglia inondando di superumano le superfici pietrificate, cancellando ogni accettazione di sfida rifuggendo divisioni.

C'è qui il cuore di Gesù e risplende per tutti...

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