Django (1966)
regia: Sergio Corbucci
con: Franco Nero, Loredana Nusciak, Eduardo Fajardo, Jose Bodalo
Prosegue con medio successo la retrospettiva dedicata allo spaghetti western alla Mostra del Cinema di Venezia. Le colt, anche quelle barocche e logorroiche del western all'italiana, non interessano più che pochi fedeli innamorati. Il western così come lo abbiamo conosciuto è diventato il genere più impresentabile della storia del cinema, benchè sia stato uno dei primi generi cinematografici apparsi, proprio a ridosso della fine della frontiera vera e propria.
Forse è una generalizzata crisi di rigetto dovuta a decenni di visioni televisive dei nostri padri riguardo titoli come "Un dollaro d'onore", "Sentieri Selvaggi", "Ombre rosse"; peccato, ci sarà meno mondi in pellicola su cui poter sognare.
Venerdì è stato proiettato alla mostra uno dei capisaldi del genere, il fortunato "Django" di Sergio Corbucci, con Franco Nero. Il film all'epoca fece esplodere i botteghini, confermando la sete di emozioni estreme del nostro pubblico così levantino che già maldigeriva le educate pistole degli eroi classici. Leone aveva dato nuova linfa ad un genere moribondo, iniettando però la più letale dose di veleno dalla quale il cinema sulla frontiera non si sarebbe più ripreso; la saturazione della violenza, l'uso esasperato dei movimenti di macchina e delle inquadrature, i volti come brulli paesaggi, il nichilismo dei protagonisti e le musiche melodrammatiche e tonitruanti furono gli elementi chimici della pozione letale.
Si vede che il genere doveva morire; "Django", il più celebre beccamorto della storia dei tortilla western, fu uno dei diretti esecutori dell'omicidio.
Conservato al MOMA come esempio di "arte contemporanea", "Django" fece la fortuna di Corbucci, qui al suo quarto western, e del produttore Manolo Bolognini. Oltretutto stabilì nuove coordinate per il western nostrano, assenti o appena accennate nei classici Leoniani. Come specificò Corbucci, la scelta estetica dei suoi film era composta da fango, cupezza e notte in "contrasto con la linea di sabbia e sole di Sergio Leone" (cito Corbucci).
"Django" aprirà le porte ai suoi fratelli maggiori, in particolare l'indimenticabile, funesto, "Il Grande Silenzio" (1968) di cui ho già scritto e finalmente definirà la scelta artistica dell'autore (uomo intelligente, gioviale con già una notevole carriera alle spalle in film con Totò e commedie.)
Detto ciò "Django" preso di per sé è un film con momenti davvero mediocri; innanzitutto la sua derivazione, talvolta pesante, da "Per un pugno di dollari", la cui trama si rifà non poco. Anche l'approssimazione tecnica di certe scene pesa sul risultato del film, talvolta sciatto e ridcolo. Il personaggio del giustiziere beccamorto, che segna uno dei più riusciti e longevi sodalizi artistici tra autore e attore (Franco Nero), è interpretato da Nero in maniera talvolta ridicola, soprattutto nella (rara) gamma di espressioni. La conclusione del film che vede il pistolero con le mani maciullate, tentare e riuscire a far fuori la residua banda del colonnello Jackson è frettolosa e puerile (tralascio di dire che è inverosimile perchè certi deliri io li accetto e mi divertono assai).
Cosa fa, nonostante tutto, di "Django" un film classico del suo genere? Ciò che si è detto all'inizio: Corbucci crea un nuovo microclima al western spaghetti. Chi era rimasto affascinato dalla "terrona" atmosfera dei western di Leone trova in "Django" nuovi mondi in cui infrattarsi e dare sfogo al gustoso delirio interiore dell'enfasi westernara. Un nuovo tipo di trucidume (l'aiuto regista era Ruggero Deodato...), un vento di colera, un paesaggio cimiteriale, sviluppato, dicevo, in maniera eccelsa ne "Il grande silenzio" e un malmostoso becchino come giustiziere.
Direttore della fotografia è Enzo Barboni, alias E.B.Clucher, l'inventore di "Trinità" che in un primo momento doveva essere interpretato dallo stesso Nero.
Bella la colonna sonora di Luis Bacalov che vede il mitico Rocky Roberts cantare i titoli di testa. Questo film era il film prediletto dal protagonista di "The harder they come", interpretato da Jimmy Cliff. "Django" ha davvero fatto il giro del mondo e ha funzionato come catarsi per le ingiustizie private. Assolto.
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