Ho già avuto tristemente modo qualche recensione fa, di esprimere miei personalissimi disappunti nei confronti delle case discografiche, in merito alla loro mancata disponibilità di ripubblicare in digitale rari e preziosi dischi, del cantautorato italico a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, pressoché di scarsa reperibilità e ormai finiti nei cassonetti del dimenticatoio, che ho avuto la fortuna di recuperare nel loro formato originale in vinile. Dischi di un’autentica raffinatezza, versi scritti con gusto, cantati con garbo e mai musicalmente scontati. Il gatto Paoli… l’accantonato Lauzi… o il dimenticato Endrigo, un artista che non si è mai dichiaratamente esposto in ogni suo singolo album, a riferimenti o credi politici. Cantava fin dagli esordi le impressioni del periodo, sempre con grande sensibilità e creatività melodica, tanto da essere nel 1994 “scippato” di una sua sconosciuta composizione scritta nel 1974 a quattro mani con il cognato Riccardo Del Turco, da un noto compositore di caratura internazionale, che userà per portarsi sul comodino, una gloriosa statuetta per la Migliore Colonna Sonora 1996 e riconosciuta di paternità endrighiana, solo nell’autunno del 2013, dopo una causa prottrattasi per quasi vent'anni, lungo i quali il cantautore friulano ha avuto purtroppo anche il tempo di finire sottoterra, senza conoscer verdetto. Nonostante ciò, non c’era bisogno di dimostrare lo spessore di questo artista con un Oscar ormai più che postumo; l’enormità di Endrigo, per chi bazzica gli ambienti del cantautorato più fine ed elegante, è già riconosciuta da decenni.
Un artista che anche nell’Italia opportunista delle Milano da bere, degli Yuppies, dei paninari e dei capelli patinati, aveva il coraggio e la voglia di riapparire ancora di tanto in tanto, in punta di piedi e in religiosa discrezione, per pubblicare i suoi pensieri, le sue percezioni, i suoi sogni, talmente puri e naturali, da chiedersi per quale motivo, non fosse mai riuscito a collocarsi in una posizione di rilievo nei confronti di un pubblico più vasto.
Per essere esatti e per non far torti a nessuno, mi rimangio, ma solo parzialmente ciò che ho scritto nell‘introduzione, perché in realtà esiste anche la versione in compact disc del suddetto album, ma è talmente arcaica e fuori catalogo da risultare ormai irreperibile.
Sul finire del 1988 “Il Giardino Di Giovanni” è l’antitesi di ciò che quegli anni ottanta proponevano. E’ un prodotto in cui Sergio si rapporta molto con il suo passato, proponendo ben sedici brani, otto inediti nel primo LP, “Il giardino di Giovanni“, “La tigre“ (pezzo prettamente legato alla cover dell'album), “Fiori“, “Correre“, “Questo è amore“, “Ancora un giro“, “L’Italia che non conta“, “Stazioni“ e altrettanti “remake” nel secondo, il tutto senza prolissaggini tempistiche, in quanto i due dischi hanno una durata complessiva di 57 minuti; i pezzi più anziani saggiamente riarrangiati, scorrono veloci e piacevoli e sono tratti in modo variegato dalla sua discografia più remota e celebrata tra il 1962 ed il 1970: “Io che amo solo te“, “Teresa“, “Adesso sì“, “L’arca di Noè“, “Canzone per te”, “Via Broletto“, “La prima compagnia” ed “Era d’estate”. Il nuovo e maturo Endrigo di fine ottanta si mescola perfettamente a quello di due decenni prima; esiste un connubio tra essi, pervade quella stessa vena poetica, romantica, riflessiva ed intimista, esposta con semplicità ed eleganza fin dagli anni sessanta e traspare quella modernità sonora che li accomuna, emersa grazie al contributo di musicisti quali Guido Benigni, (principalmente chitarrista e al contempo valido polistrumentista, cultore di sonorità ricercate, militante decennale su palchi in tutta Europa con gli “Acustica Medievale“, che più avanti si affiancherà con artisti del calibro di Paolo Fresu e Max Manfredi con il quale si aggiudicherà un Tenco di lì a un paio d’anni e collaboratore di Michael Jackson nel “Bad World Tour”), l’arrangiatore Euro Ferrari e la produzione artistica di Edoardo De Angelis.
Ci sono quell’amore, quella laconica speranza e quella sensibilità universale che accomunano tutto l’album, legate a quella saggia consapevolezza dello scorrere del tempo e a quella malinconia tediosa e lieve che lo hanno sempre accompagnato. Il colpo d’occhio in copertina è notevole: una delle numerose tigri in agguato dipinte da Antonio Ligabue, artista folle e visionario, sinonimo probabilmente di spirito libero e selvaggio, desideroso di prevalere biologicamente in qualità di predatore, ma schiacciato impotentemente da regole e convenzioni scomode.
“Il giardino di Giovanni” sarà il suo penultimo album di inediti prima di chiudere definitivamente nel 1993 con l’ormai introvabile “Qualcosa di meglio” e a chi gli chiedeva del perché avesse deciso di chiudere la sua attività discografica rispondeva: “Dal 1980 ho inciso cinque dischi che sono stati letteralmente buttati via dalla discografia, non promossi, non distribuiti e per questo ignorati dal grande pubblico”.
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