I Sevendust tornano dopo tredici album e trent’anni di carriera alle spalle con il nuovo lavoro, “Truth Killer”.
Il predecessore “Blood&Stone”, uscito in piena pandemia e acclamato dalla critica, ha sancito la fine della breve ma intensa collaborazione con la Rise Records, che ha passato il testimone a Napalm Records.
Prodotto da Michael “Elvis” Baskette (Alter Bridge, Trivium, Slash), illustre nome nell’ambiente metal, “Truth Killer” viene alla luce alla fine di un torrido mese di luglio, anticipato dall’uscita dei singoli di rito, che facevano già ben sperare.
L’opener “I Might Let The Devil Win” stupisce e sbigottisce. È la traccia che non ti aspetti. Lenta, dolce, guidata da note di pianoforte e dalla voce soul di Lajon Whiterspoon, per l’occasione nei panni di crooner. Non serve essere aperti ad ogni genere per ammettere quanto sia piacevole ascoltarla più volte, prima di addentrarci senza fretta verso ciò che speravamo accadesse.
Si, perché si tratta di un piacevole inganno, dato che le restanti undici tracce sono potenza e graffi. La title track “Truth Killer”, nonché “No Revolution”, “Sick Mouth”, “Everything” e “Won’t Stop the Bleeding”, ci fanno dare una lunga sbirciata a quel passato da Re Mida, con un deciso riferimento agli immortali album antenati “Home”,“Animosity” e “Seasons”. Lajon con le ottave fa quello che vuole come al solito, Morgan Rose colpisce il rullante e i tom-tom in modo forsennato, impreziosendo il tutto con i backing vocals, che ormai sono consuetudine fin dall’anno zero della band. La premiata ditta Connolly – Lowery non è da meno e sfoggia la solita consapevolezza alle corde, merito anche della benzina iniettata dalle ultime uscite con i Projected, progetto parallelo nato dalla collaborazione tra John Connolly e Vinnie Hornsby, bassista della band.
“Holy Water” e “Leave Hell Behind” lasciano un po’ di spazio al sintetizzatore, ammorbidendo gli arrangiamenti; se il primo rientra di diritto tra i pezzi più coinvolgenti degli ultimi anni, il secondo non è da meno, grazie all’atmosfera riflessiva e malinconica regalata dalle note di pianoforte.
La tracklist scorre che è un vero piacere e quando questo accade, sappiamo già che si tratta di un lavoro ben fatto. Si affrontano temi sociali, dalla condanna verso la poca propensione alla rivoluzione, in una società che se la meriterebbe, fino alla consapevolezza dell’imprevedibilità e dell’arroganza delle nostre esistenze. La voce a quest’ultimo argomento è stata data dalla bellissima ballata “Messenger”:
“We’re just the passenger
Living our arrogant lives
For all we now
Selfish and cynical
Killing the messenger
It’s all that we know”
“Superficial Drug”, ultimo singolo estratto prima dell’uscita dell’album, rientra tra gli episodi più docili ma è molto piacevole, soprattutto per il ritmo sincopato, guidato dall’alta tonalità di Whiterspoon. Qualche dolente nota, tra le poche che da questo lavoro arrivano alle nostre orecchie, è rappresentata da “Love and Hate”, tirata troppo per le lunghe tramite il solito loop che ha pervaso parte delle ultime pubblicazioni.
La chiusura del cerchio, il doppio nodo fatto a un perfetto fil rouge, è la closing “Fence”. In antitesi con la traccia di apertura, “Fence” è ossigeno puro per i nostalgici dei primi headbanging a suon di dreadlocks di Mr.Whiterspoon. Un pezzaccio da moshpit (c’è una mia recensione dedicata), tra ruggiti vecchia scuola, schitarrate e percussioni forsennate.
I Sevendust sono una delle poche band felicemente sopravvissute alla breve e fragorosa ondata del nu metal. Non si sono mai persi e non hanno mai perso tempo. E se dopo tutti questi anni riescono a sfornare dodici brani come questi, dando l’impressione di non voler mollare un centimetro, vuol dire che il futuro non può che riservare loro altre soddisfazioni.
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