Di come e perché la terza fatica degli Shame è il mio album dell’anno. Alzi la mano a chi piace il post-punk. Gli altri tranquillamente si fermino. Evitino, glissino, passino oltre, facciano altro, provino a dedicare il proprio tempo ad attività ricreative, concentrino i propri ascolti su altri lidi musicali. ‘N c’è trippa pe gatti.

Il cibo per vermi ha preso a lungo polvere sullo scaffale. Ho preso polvere anch’io nel mese di novembre. Post-punk dicevo, che prendo ad estese dosi in ristretti periodi. Per me il revival dal regno unito vuol dire minimalismo che sfocia in esplosioni, alternanza di repulsioni vitali espresse in sali e scendi vorticosi, trasmissione di frequenze cupe, sensazioni di freddo. Attacchi d’ansia lunghi 40 minuti. Lo contraddistingue quello che potrei percepire come un distacco, figlio di una presa di coscienza della relatività che accompagna le miserie umane. I Shame non sarebbero da meno, se non che ai miei timpani celano meno di altri un’invidiabile sfiducia nei confronti del creato. Quindi si, mi è sempre piaciuto il loro stile, se così si può chiamare.

Di un viaggio mentale, di un desiderio inespresso. Una colonna sonora di un tragitto che deve ancora essere abbozzato. I Shame mi tirano su per farmi sprofondare ancor più violentemente. Sono maturati, un po’ smussati certi spigoli ma resi più tetri, introspettivi, sprazzi emo con certe metriche da Bloc Party avvelenati. Pare (e non solo a me) di sentire la versione incattivita di Stephen Malkmus. In “Six Pack” in qualche modo i primi Red Hot Chili Peppers. Nelle ballate la sensazione di spazio dilatato degli Interpol. Le chiusure dei brani mai scontate lasciano sospesi in attesa di qualcosa che non arriverà mai. Col rischio di mettere a volte troppa carne al fuoco: “Different Person”.

Di regressioni litorali adriatiche e bassa pressione. Di come e quando quella volta co’n majoncino sgarupato tornavo a casa, in un luogo ostile. Risalendo lo stivale ad ogni guado lo scenario muta, le lingue cambiano, i colori della terra variano. Per dire, il dialetto chioggiotto appariva tetro come la nebbia che fendevo. Yankees. Il nord, di esattamente che cosa? Comunque nord, con l’idea di fondo di stare effettivamente sopra a qualcuno o qualcosa. Più risalivo più mi sentivo sconquassare. Oltre alla mia bile saliva anche la gradazione alcolica media dell’individuo medio. Potevo quasi annusare la dedizione al lavoro, per non dire l’attaccamento, man mano che m’inerpicavo in quella distesa senza tregua della bassa padana. La pellagra neanche più un ricordo. È questo che ci ha reso migliori: l’obsolescenza della piazza. Perché i luoghi di aggregazione si affievoliscono fino a scomparire e tramutarsi in BAR. Che poi è diminutivo di barbaro. Le piazze su sono anacronisticamente relegate a mercato. I parchi ci sta la tossicanza che manco i pargoletti a respirare aria pulita ci posso far pascolare. “I don’t care, I'll just take my dose then I'll smile for a while”.

Traccia preferita: “Yankees”.

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