Tre anni dopo la loro formazione e con integrazioni e esclusioni di membri, i Raven cambiano nome in Shape Of Despair e decidono di fare sul serio preparando in due anni "Sades Of...", il primo album della band, ma anche il primo a sporcare di melodia una chiarissima propensione al funeral doom metal.

Cinque tracce di necessaria lunghezza, ma di profondità spaventosa. Se iniziassi a parlare della line-up finirei col rendere questa recensione un libro: è un progetto di musicisti impegnati nei migliori gruppi della scena estrema finlandese (Finntroll, Impaled Nazarene, Ajattara, The Mist and the Morning Dew...).

Non è un disco normale questo. Si tratta di musica che sebbene non lasci quasi spazio a nessun altro inserto strumentale, non colpisce per massa, ma per potere di penetrazione. E' come una nebbia fittissima che impedisce di vedere ma che se provi a palpare non sembra così consistente come appare. Eppure la sensazione di isolamento, tristezza e freddo si diffonde in tutto il corpo, addormentandolo dall'interno, come un'eutanasia.
Le chitarre, lontane ma mai assenti fanno da contorno avvolgente e massiccio, ma ripeto solo in apparenza. La batteria sperimenta tempi estremamente veloci per il genere (si tratta comunque di funeral doom, dove solitamente si abusa non solo di semibrevi e brevi, ma anche di qualcosa di più lungo). La voce, cavernosa e profondissima non è mai protagonista, ma accompagna insieme a tutto il resto. Quella femminile si limita a vocalizzi e viene spudoratamente usata come uno strumento musicale, sempre delicata e vicina allo strumento volutamente protagonista: il flauto. Tramite questa scelta, gli Shape Of Despair si distaccano enormemente da qualsiasi canone e personalizzano un genere spesso noioso, rendendo i 14 minuti della prima traccia tutt'altro che lunghi. Ed è questa la caratteristica sorprendente e innovativa della band. "In The Mist" non solo non annoia dunque, ma presenta perfino un'espressività perfetta per il testo. Mancano assoli e dimostrazioni di bravura tecnica, perchè la scelta emozionale è decisamente più attinente. Non si ride, non ci si vanta nè si deve dimostrare nulla a nessuno. Si suona per esprimersi.

E su questa linea "Woundheir" propone ancora intrecci continui di chitarra adagiati su tastiere mai invadenti. La sorpresa alla terza traccia è l'incapacità di provare noia o disgusto per un filo conduttore unico e parzialmente mutato rispertto all'inizio: "Down Into The Stream" non è diversa da nessuna delle altre eppure continua a trasportare con lentezza (ma mai pigrizia) attraverso notti nebbiose e umide, e la sensazione di isolazione aumenta, non senza ricreare paesaggi di foreste e natura. "Shadowed Dreams" è la traccia "meno lunga", visto che "più breve" non si adatta affatto agli 8 minuti e 20 che conta. I tempi sono più veloci rispetto alle altre, ma sempre mai esagerare. La ripetitività si spezza sporadicamente e la sensazione di ipnosi velocizza ancora una volta l'ascolto, che ci conduce a "Sylvan-night", ultimo pezzo che chiude perfettamente un lavoro perfetto. Interminabile e lenta, accompagna nella prolissità della dolcezza del suo testo. Il fascino delle liriche infatti viene perfettamente recitato e inserito negli intrecci musicali che già sembrano parlare da sè, senza parole...

E sebbene se ne era convinti dall'inizio, la notte è giunta solo adesso.

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