Partiamo dall'epilogo: ho stretto la mano a Steve Albini. Non mi sembra vero. Proprio lui, quello di "Colombian Necktie", "Kerosene", "Hated Chinee" etc... Icona del rock indipendente made in USA, conosciuto molto per le sue numerose e importanti produzioni, ma troppo poco per la sua attività di cantante/chitarrista/compositore.

Negli anni 80 diffuse il verso noise da Chicago al resto degli States coi Big Black, per poi "inventare gli anni 90" con un pugno di brani firmati Rapemen. Nell'ultimo ventennio, alla guida degli Shellac, ha diradato le sue pubblicazioni, ma nondimeno ha fornito la sua personalissima versione di quello che i critici contemporanei hanno battezzato math-rock, ossia un rock rumorista, dai contorni acuminati e dai costrutti geometrici.

Se devo essere sincero, a mio modesto parere, la qualità media dei 4 LP che gli Shellac hanno spalmato dal 1994 al 2007 resta piuttosto inferiore a quanto fecero Big Black e Rapeman fra il 1983 e il 1989. Ma è ovviamente una questione di gusti personali. E d'altra parte, non è facile nemmeno per lo stesso Albini raggiungere ripetutamente certi altissimi livelli.

D'altra parte, ieri sera Steve suonava praticamente a casa mia e non potevo proprio perdermelo. Forse non impazzisco per gli Shellac perché in fondo sono un fan di Albini, mentre gli Shellac non sono "Albini + 2 collaboratori a caso". Gli Shellac sono anche la band di Todd Trainer, sadico e maniacale batterista dallo sguardo tanto sorridente quanto spiritato. Magrissimo, anche più di Albini, col volto scavato, Todd è quello che si dice un batterista "dominante": ogni colpo che riserva alle sue percussioni (siano cassa, rullante, piatti, qualunque cosa) è eseguito in modo da ottenere il massimo effetto spacca-timpani.

Ogni battuta è così scandita, che sembra vivere di luce propria, isolata da ogni altra che forma la figura ritmica. Ieri è stato il primo a salire sul palco, Todd, per spostare in avanti il suo drum-kit, vicino al pubblico e, democraticamente, allineato agli altri due strumentisti. Poi entra Bob Weston, bassista paffuto dagli occhi di ghiaccio. Infine, Steve, il cui ingresso è la quintessenza dell'anti-divismo: un veloce cenno verso il pubblico, poi subito a sistemare cavi e preparare le munizioni.

Escono di scena, si fanno attendere qualche minuto, poi rientrano finalmente e attaccano col migliore degli opener possibili: "My Black Ass"! E vai col pogo! (Io ne stavo fuori però: sono fuori allenamento). Poi tocca a "Canada"... La band è in forma, l'acustica è perfetta. Fra una canzone e l'altra, i tre si scambiano cenni di intesa, sorrisi, chiarimenti, ma durante l'esecuzione dei brani sudano sette camicie (anzi, t-shirts) e non si risparmiano per niente.

Todd spacca qualche bacchetta, Bob macina giri di basso spietati e accompagna Albini al canto; Steve al solito si dimena nell'esiguo spazio scenico a lui riservato mentre maltratta la sua chitarra rigorosamente senza tracolla, raggiungendo affannosamente il microfono solo all'ultimo istante utile per cantare a tempo. Una prova generosa, umile, incandescente.

Ispirato il jamming che introduce "In A Minute". A un certo punto, Bob fa un paio di domande al pubblico, mentre Steve fa il pagliaccione con la chitarra e prende un po' per il culo (in lingua italiana) il fonico: è l'intro di "The End Of Radio", lo show personale di Todd Trainer, che gira per il palco con in testa il rullante, suonandolo magistralmente. Tra i pezzi più intensi, la classica "Prayer To God". (Non pubblico la tracklist, un po' perché non ricordo l'ordine dei brani, un po' per non fare spolier, in vista di eventuali prossime esibizioni).

Nel brano finale, Bob e Steve si sbarazzano di basso e chitarra, mentre Todd continua a picchiare duro; piano piano i spariscono i piatti, sparisce la cassa, sparisce il rullante...e Todd rimane senza più nulla da percuotere. Quando si dice "decostruire il rock"! Gli Shellac lo fanno sul serio, fuor di metafora! L'esibizione è stata ottima. L'unico mia rammarico personale sta nel semplice fatto che non amo gli Shellac quanto i Big Black o i Rapeman, per cui è evidente che il coinvolgimento emotivo non poteva essere ai massimi livelli.

Inoltre mi sarei aspettato qualche brano in più da "At Action Park", il loro album più vecchio, ma anche il migliore: magari, viste le loro abilità nel jamming semi-improvvisato, una "Pull The Cup" o una "Song Of The Minerals" avrebbero impreziosito ulteriormente la performance. Ma si sa, Albini è uno che non guarda mai al passato, ma sempre al futuro.

Dopo quasi un'ora e mezza di concerto, i magnifici tre firmano autografi, vendono magliette, rispondono a domande. Giuro di non aver mai visto così tanta disponibilità da parte di un gruppo rock così importante. Disarmante. Mi sono diretto verso Steve Albini semplicemente per stringergli la mano, ma mentre gliela stringo, Steve china il capo verso di me come in attesa di una mia domanda.

Rimango spiazzato, davvero. Se lo sapevo che era così, mi preparavo un listone di domande tecniche! E allora, del tutto impreparato, non ho potuto far altro che complimentarmi con lui per tutto ciò che ha fatto in quasi 30 anni di musica: "Congratulations for your entire carreer, from Big Black and Rapeman to Shellac". Mi ringrazia di cuore e mi saluta. E io me ne torno a casa, col cuore palpitante e la mano ancora intrisa del sudore di Albini, quello stesso sudore versato da me ogni volta che metto nell'i-pod qualche suo brano.

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