La discografia degli Shining si divide in due fasi: ci sono i primi due album e poi ci sono quelli che vengono dopo.

I primi due sono pietre miliari, passi fondamentali per lo sviluppo del cosiddetto filone “depressive” all'interno dell'area di estrazione black metal: rozzi, rancidi, disarticolati, totalmente votati a suscitare emozioni di segno negativo. Dal terzo capitolo in poi s'inaugura invece un nuovo corso in cui, pur non perdendo la peculiare aura depressiva che rappresenta fin dalle sue origini la ragion d'essere della formazione svedese, la musica proposta dalla band si va progressivamente ad affinare, emancipandosi dalle sporche e sofferte composizioni degli esordi, per mutare in qualche cosa di maggiormente articolato e composito.

Quello che tuttavia sorprende della discografia degli Shining è la costanza nella qualità: l'intero percorso di Niklas “Kvarforth” Olsson, padre-padrone del progetto ed unico membro stabile nel succedersi di vari cambi di line-up, si caratterizza infatti per il lodevole intento di arricchire, di volta in volta, il proprio potenziale “artistico” in un'evoluzione che ad oggi non sembra registrare sostanziali passi falsi. Poi c'è chi preferirà gli Shining degli esordi, come chi invece ne apprezzerà le successive mutazioni, ma rimane un punto fermo: il rispetto che possiamo tributare ad un autore che negli anni è stato capace di non perdere smalto quanto a songwriting e voglia di osare. Pagliacciate a parte...

“II: Livets Andhallplats” si interpone fra “Within Deep Dark Chambers”, che ci aveva mostrato una formazione forse ancora acerba, ma in grado di dare una forma compiuta ad una scrittura sempre ispirata, seppur fra le mille imprecisioni ed ingenuità (ma la sua forza espressiva rimarrà ineguagliata), e “III: Angst, Sjalvdestruktivitetens Emissarie”, che ci consegnerà invece una band finalmente matura, forte di un approccio incredibilmente professionale (il millimetrico, dinamico, potente batterismo di Hellhammer farà la differenza), capace di cambiare pelle e di veicolare il proprio messaggio senza disdegnare tecnica e melodia.

L'album qui recensito, opera seconda pubblicata nell'anno 2001, rappresenta per molti l'apice formale della prima fase artistica della band. Se da un lato continuo a preferire il suo predecessore (sono convinto infatti che in questo secondo lavoro si perda un po' di freschezza e di vigore in sede di scrittura ed intuizioni), dall'altro è un dato di fatto che la band sia qui in grado di compiere un significativo passo in avanti, poiché in questa opera si vanno a definire con maggiore nitidezza quelli che sono gli stilemi che caratterizzeranno il genere intero, tanto da divenirne l'ideal-tipo, la fonte di ispirazione per molte altre band dedite alle medesime sonorità.

La visione artistica di Kvarforth trae ovviamente ispirazione dalle intuizioni introdotte nella decade precedente da un musicista come Varg Vikernes, che certo non era un allegrone, facendo al contempo tesoro delle lezioni impartite dai connazionali Katatonia. Ma se s'inizia a parlare di depressive suicide bla bla bla black metal, è perché l'esperienza Shining pone un'attenzione morbosa sulle tematiche dell'autodistruzione e del suicidio. Da un punto di vista prettamente stilistico, il tutto si traduce in una musica che si sviluppa in senso orizzontale, in cui la sintassi del black metal viene rimodellata fino ad assumere le forme di un nuovo genere musicale: “II: Livets Andhallplats” non fa quindi altro che riprendere quanto di buono era stato riversato nell'album precedente per poi ripulirlo da quegli elementi che potevano ancora essere etichettati come canonico black metal, rigenerandoli in un contesto maggiormente sistematico, dove l'arte degradante di Kvarforth trova una maggiore consapevolezza, e sicuramente una definizione: depressive black metal.

Ne è la prova l'arpeggio che apre l'opener “Ett Liv Utan Mening”, presto raggiunto da un impastato quattro quarti e dal gracchiare sgraziato di Kvarforth che non risparmierà le proprie corde vocali per raggiungere i più disparati registri di disperazione. Il brano non tarderà ad elettrificarsi, ma già in questi primi minuti è in grado di delineare lo sconcerto di una musica che non teme la decelerazione, la pausa atmosferica, al fine di generare ambientazioni malsane e disturbanti. Non mancheranno certamente momenti maggiormente tirati (e sempre l'opener annovererà nei suoi sette e passa minuti il blast-beat più furibondo del platter, presto stemperato in impasti elettroacustici che faranno la fortuna del band e del genere intero), ma è chiaro che sia già in atto una calibrazione consapevole degli elementi in una formula meglio declinata che in passato: si consolida così la composizione mediamente lunga (i brani oscillano fra i sette e i dieci minuti), dominata da mid-tempo elementari e ripetitivi, dove i gelidi riff di matrice black metal sono intervallati a desolanti escursioni acustiche, il tutto sovrastato da uno screaming feroce ed al contempo straziante.

Tutto questo è per esempio rinvenibile in “Annu Ett Steg Narmare Total Urtfrysning”, monumentale e paradigmatica nei suoi dieci minuti, arricchita da colate di tastiere i cui accordi votati alla più nera decadenza vanno ad ammorbare un discorso basato su un drumming derelitto e chitarre marce all'ennesima potenza. In brani come questo, o come “Svart (Ur Dagerman's Perspektiv)” sta l'essenza di un nuovo genere che riesce a catturare le atmosfere tragiche ed al contempo epiche proprie del black metal, per rigenerarle in un contesto di assoluto degrado psichico ed esistenziale.

La chitarra di Kvarforth è la vera protagonista di queste sessioni dell'abisso, laddove la batteria procede ancora in modo elementare (non disdegnando tuttavia azzeccati cambi di tempo e passaggi più fluidi), il basso è quasi inesistente e le tastiere vengono relegate alla mera funzione di rifinitura, mentre lo screaming dello stesso Kvarforth, pur sempre suggestivo, non è ancora uno strumento perfettamente accordato. Ma è proprio questo mare di imperfezioni a decretare il fascino di un album che vede la sua forza nella carica espressiva delle proprie composizioni: in particolare le linee melodiche disegnate dalla chitarra, di evidente estrazione burzuminana (imponente a tratti, sfibrata in altri, ma sempre fantasiosa) sono in grado di entusiasmare in molti frangenti, tanto che potremmo parlare di capolavoro, se non fosse per un paio di trascurabili tracce ambientali che tolgono incisività ad un discorso che vede la sua forza nella verve chitarristica e vocale del suo deus ex machina.

Ad indispettire, più che altro, sono quei momenti in cui la band non può fare a meno di sfociare nel pacchiano, come succede nella title-track, chiamata emblematicamente a chiudere il platter: le rabbiosi istigazioni al suicidio in essa espresse, se vanno pur sempre a costituire il manifesto “ideologico” dell'entità Shining e di un genere nella sua formazione (che ha quindi bisogno di esplicitare il messaggio in una forma declamatoria se non didascalica) sono infatti il punto debole di un prodotto che avrebbe avuto molto da dire in quanto a capacità di creare atmosfere e generare nitide visioni nell'ascoltatore, ma che finisce per suonare puerile, se non ridicolo, nell'ostentare, in modo artificioso e perfino stucchevole, un'attitudine “negativa a tutti i costi”, sfociando spesso nel cattivo gusto, se non nella semplice idiozia.

Carico i commenti...  con calma