LA RAGAZZA E IL GIGANTE
L’immagine che campeggia sulla copertina è un disegno di Miles. Un bacio.
Erano passati sei anni dalla scomparsa di Miles Davis quando Shirley Horn incise questo disco, poi pubblicato l’anno seguente (’98)
Ma ne erano trascorsi molti di più, quasi un trentennio, da quando lei apriva le serate di Miles al Village Vanguard, interpretando, tra gli altri, anche tre dei brani che avrebbe poi inciso nel suo omaggio a quella figura per lei così familiare.
Era stato lui a “scoprirla”, raccontano le cronache.
In mezzo, tra gli esordi a fianco del gigante e il tributo che gli dedicò, una vita.
Fatta anche di oblio, di lontananza dalle scene, di dedizione alla famiglia, di ritorni e successi che decretarono l’ascesa verso la definitiva affermazione di un talento precocissimo (aveva iniziato a suonare il pianoforte all’età di 4 anni) affinatosi sul “versante delicato dello swing” *.
Quello che lei ricordava “quasi come uno zio”, il suo mentore agli inizi degli anni ’60, resta un astro che illumina il cielo di ogni amante della musica con una luce che non potrà spegnersi. Una luce che certo non si era spenta nel cuore della Horn, come dimostrano l’amore ed il rispetto emanati da ogni singolo minuto di questo splendido lavoro, che le valse il Grammy come miglior disco di vocal jazz.

REMEMBERING SHIRLEY
Ed è passato quasi un anno dalla morte di Shirley, avvenuta all’età di 71 anni, nell’ottobre del 2005.
Mentre ascolto le note del suo pianoforte, la loro progressione ed il suo tocco, penso che la qualità di questa musica rendono il riconoscimento del Grammy paradossalmente limitato.
Non solo di un eccellente lavoro di vocal jazz si tratta, ma di un meraviglioso disco di jazz, suonato in modo impeccabile da un manipolo di musicisti, tra i quali un paio (Ron Carter e Al Foster) che fecero parte delle formazioni di Miles.

Non deve essere stato facile per la “piccola” Shirley, scegliere i brani nello sterminato repertorio dello “zio”.
Come non è impresa da poco, per il giovane trombettista Roy Hargove, quella che lei gli affida: a lui tocca evocare e interpretare il suono di una leggenda. Se la caverà egregiamente, sia nella versione più “fedele” al modello che in quella più personale.
La Horn decide di attingere soprattutto dagli anni ’60 con qualche incursione nel cuore “elettrico” di quelli successivi. E non include nessuna composizione di Davis (tranne quella che chiude il disco, “Blue In Green”, firmata da Miles ed Evans) ma brani che lui aveva interpretato nel suo inconfondibile stile.
Le mani e la voce di Shirley forniscono una trasposizione estremamente personale del pregiato materiale: una declinazione intima che privilegia un approccio misurato come strumento di indagine sull’essenza dei brani. Al punto che appaiono a volte ancor più rarefatti che nelle versioni di Davis, mossi da una delicatezza sicura, in traiettorie che diventano emozione pura in alcuni passaggi vocali.

9 ESERCIZI DI STILE

Il disco si apre con un gioiello senza tempo.
Ascoltate con quale registro la Horn affronta una sfida come quella rappresentata da “My Funny Valentine”: la delicata precisione della voce, la qualità degli accenti, la stilizzazione del profilo melodico, il piccolo stormo di note sul quale quella voce accenna ad una tensione che si stempera poi, con apparente naturalezza e assoluta perfezione, in un finale semplicemente esemplare.
Siete già immersi in un mood che non vi abbandonerà, catturati da una classe cristallina.
E in “I Fall In Love Too Easily” ascoltate l’attacco, di quella voce: giunge quasi subito e in pochi secondi svela, sulle note centellinate dal pianoforte e il soffio discreto di Hargrove, tutto il fascino del languore malinconico ma disincantato che pervade la song.
Nel terzo brano, “Summertime”, fa la sua apparizione anche l’armonica di Toots Thielemans che riversa il proprio suono in una rivisitazione venata di raffinato blues dell’immortale standard vergato dalla mano di Gershwin. Qui la voce di Shirley sceglie una danza essenziale ma segnata da dettagli preziosi, nel passaggio tra l’esuberanza aperta e il sussurro modulato nel volgere d’una frase.
Non spingerò oltre il tentativo di descrizione: le altre sei tracce si attestano sui medesimi, eccellenti livelli, consegnandoci un disco che rinnova ad ogni ascolto la magia dell’accurata forza che lo guida.

Mentre le note di una “Blue In Green” trasfigurata nell’ interpretazione al pianoforte, che evita l’esposizione del tema evocandone l’essenza, chiudono l’intenso omaggio di una vera signora del jazz ad un grande musicista, ascoltandole io chiudo queste righe con un invito: lasciatevi ammaliare da questa voce, consentitele di mostrarvi il suo incantesimo.
L’incantesimo di un’altra stella che continuerà a brillare nello sterminato cielo del jazz.

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