Che gli Shizune avessero talento lo si era capito, potrei dire da tanto, ma sarei bugiardo, visto che li conosco da pochi anni. E allora è questo che sorprende, ovverosia la facilità disarmante con cui i nostri rapidamente si stan ritagliando un piccolo, ma importante spazio in una scena congestionata, ma che non manca mai di proporre delle perle da scovare. Stavolta è proprio il caso di andare a cercarla e godersela tutta, dall'inizio alla fine. Badate bene, mai come in questo caso usar "i nostri" non è un semplice escamotage da pseudo-recensore per evitar ripetizioni, ma perché la bandiera italiana con loro può orgogliosamente svolazzare in aria, senza timore nei confronti anche di realtà più blasonate ed estese che vanno al di là del Vecchio Continente. Non ho fatto i compiti (male) e non so se il riferimento al titolo dell'album sia all'omonimo scritto di René Barjavel. Vabbè, male che vada è la mia mente che vede connessioni ovunque, anche dove non esistono. Mi capita spesso ora che ci penso, spero non sia questo il caso. Ok, vediamo di non distrarci e concentrarci su questa bombetta esplosiva racchiusa in semplici 10 pezzi (no, state lì Refused non vi sto semi-plagiando, chiedo scusa) che si nutrono e dilaniano in hardcore emotivo e screamo. La ricetta è essenziale e le poche linee tratteggiate si perdono nella confusione del ricercarsi continuamente fra l'anima più disperata e quella che preme per una necessità di voler dire qualcosa, far qualcosa, cambiar qualcosa, insomma metteteci la combo a mò di Tekken "triangolo + qualcosa" e al posto che la mossa finale di Yoshimitsu vi salterà fuori il quadro dipinto dagli Shizune. Ed è di quelli per cui vale il prezzo del biglietto.

L'ispirazione per questa recensione mi è venuta oggi pomeriggio. Era un paio di settimane che provavo a buttar giù due righe su sto disco, ma nulla. A dir il vero il chiodo fisso era questo riferimento al tempo onnipresente, che si sente vivo e pulsante tipo il cuore rivelatore di Poe, lungo la spina dorsale che sorregge i testi sofferenti e poliglotti degli Shizune, fra una capatina in Francia, strizzando l'occhio ad Albione e tornando nell'abbraccio della Madrepatria. Niente, passeggiando lungo l'Hammer Museum c'era quest'esposizione di Charles Gaines, artista che m'era sconosciuto (beata onestà intellettuale) e che, guarda te le coincidenze, stava parlando dei suoi lavori esposti. Ora, visto che la mia conoscenza sulla sua carriera si assesta attorno ai 45 minuti di visita guidata potrei dirvi una seria cantonata, ma quello che m'è rimasto impresso dei suoi lavori, che uniscono rigore matematico alla poesia, è quello di voler cercar di quantificare, catturando in piccoli tasselli, numerando, dando gradazioni di colori, il tempo. Partendo da fotografie di alberi e foglie, intrappolando il movimento di una ballerina, osservando lo scorrere delle stagioni su un frutteto o semplicemente notando l'evoluzione e il conseguente decadimento che offusca e inghiottisce con se tutto ciò che il tempo stesso ha contribuito a creare. Un ciclo infinito, perpetuo. E voi giunti a questo punto vi chiederete: cazzo c'entra con gli Shizune? Ci arrivo. Intendiamoci: per apprezzar al meglio sti dischi bisogna andar a valutare la componente emotiva, mica i virtuosismi. E qui dentro ce ne è a secchiate, di quelle gelide, che risvegliano e terrorizzano. Il fluire del presente, gli echi del passato e l'incertezza del futuro che si materializzano grazie alle malinconiche melodie, agli spigolosi cambi di direzione che freneticamente cercano di non scomparire. È un alternarsi ondivago fra apparizioni estemporanee di ricordi a suon di intimi interludi e urla che martellano, martellano, martellano come se non ci fosse un dannato domani. Questo dallo screamo si chiede e gli Shizune stanno lì in prima linea, con la giusta raffinatezza che mette ordine al caos emotivo, intrappolando in scaglie di due minuti (scarsi) un concentrato adrenalinico e riflessivo. Ah, gli ossimori, vecchi amici.

Così nel tornar a casa nelle cuffie mi son piazzato in loop il minutino strumentale di "Orienteering in Aokigahara", un'atmosfera un po' surreale viene a crearsi, ma c'è un qualcosa che tranquillizza e distende i nervi in quel delicato arpeggio ripetuto che la compone, dove per inerzia sei portato a veder il capitolo successivo che ti possa trascinare nel gran finale di questo "Le Voyageur Imprudent". Un lavoro che, alla fin fine mi son detto, fa bene. Fa bene un po' a chi lo ascolta. Fa bene alla scena underground. Fa bene alla Dog Knights che aumenta il suo roster di qualità. Fa bene quel che deve fare operando all'unisono sulle giuste armonie, sui giusti scorci oscuri popolati da fragilità e dal simbionte di Venom (ok, la chiusura n3rd potevo evitarla). E poi boh, è un periodo così, dove son in mood "all we love we leave behind" (e qui i Converge vengono sotto casa con le spranghe, 'spetta, toh: ©) e allora legger le parole degli Shizune e associarle allo screamo liberatorio fa bene. Basta così.


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