Un altro disco dalla Svezia.
Un altro gruppo al debutto.
Un altro satellite a gravitare in un universo, quello del cosiddetto “post rock”, che mi dicono ormai condannato ad una sorta di sfibrante autoreferenzialità.
Ma addentrandosi negli ambienti strumentali di “Seawards” si scorgono invece molti indizi d’una identità definita, che pare aver trovato una ragion d’essere ed un proprio registro per esprimerla.
I sei di Stoccolma, infatti, sono in pista dal 1999. Il fatto che licenzino il loro primo album dopo tutti questi anni è forse indice della lenta e progressiva maturazione di un progetto.
E di un suono.
Infatti è proprio la peculiare identità del loro suono, prevalentemente chitarristico, a permeare l’ottimo disco.
Che governa la dilatazione tipica del “genere” articolando i semplici temi che percorrono i brani attraverso un uso accorto sia dello “svuotamento” che della stratificazione. A tratti ricorrendo ad un approccio di scuola “minimalista”, che, negli scarti di lievi e quasi impercettibili variazioni su una reiterazione circolare, evita però la deriva paranoico ossessiva in virtù di una complessiva fluidità.
Perché è liquido, “Seawards”, e lo sono spesso anche le sue chitarre.
E, in qualche caso, onirico.
E’ abbagliato e sfocato, come lo sguardo controluce della copertina.
E’, a tratti, ipnotico.
E’ morbido e fluente.
Ma increspato da un soffio che ramifica rivoli di riverberi.
E’ estatico. Quando, prima o dopo le estenuate corse intrecciate delle chitarre, si concede la quiete di una riflessione.
Arpeggi sospesi, respiro in sincrono con l’onda.
E’ paziente. Quando attende per oltre 11 minuti che si condensino le energie che sentiremo dispiegarsi nel finale di uno dei due lunghi brani (circa 16 e 23 minuti) posti quasi in chiusura. O la tensione che esploderà nel cuore dell’altro, prima che una scia punteggiata d’interferenze lo concluda.
Le percussioni ovattate, la presenza di archi e fiati che “colorano” qualche momento, come il discreto intervento di suoni elettronici disciolti nell’omogenea sostanza sonora, risultano sempre organici al suono complessivo, all’atmosfera che il disco è in grado di creare e trasportare per i 70 minuti di questo viaggio.
Che inizia (o si conclude? La natura circolare di certi percorsi probabilmente vanifica o elude la domanda)
accanto a quella barca, di fronte ad un mare quasi invisibile ai nostri occhi per eccesso di luce.
Si. Mi pare che la fotografia scelta per la copertina del disco condensi con rara efficacia alcuni elementi che lo nutrono: spazi, luce, fluidità.
E la concretezza legnosa di una barca.
La concretezza che hanno, a volte, alcuni oggetti nei sogni.
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