L'attacco è decisamente affascinante: inizio acustico, un giro melodico accompagnato da un piano elettrico, azzeccatissimo. La voce entra filtrata e sofferta, ma epica al tempo stesso. Il tutto fa da preludio alla deflagrazione del riff, micidiale: 2 note squassanti, per poi far tornar la calma.

Quando un album inizia con tale dose di classe e dimostrazione di assoluta conoscenza della materia seventies, beh: se ami il genere, sai di aver investito bene il tuo denaro.

Si prosegue con un assolo, caldo, bluesy. La voce ancora declamante, sofferta, ma non piagnucolante o deprimente, ma liberatoria, ecco: catartica, come ogni buon mantra di hard rock psichedelico delle grandi bands dei '60 - '70 sapeva essere. Poi fuga strumentale, anarchica, tra guitar solos ed organo. Tutto molto bello.

Poi la calma. Una chitarra classica con contrappunti di flauto e mandolino che pare d'esser in un western di Sergio Leone. Poi ancora un viaggio strumentale, il tutto sempre intrapreso con perizia, senza mai esagerare o perdere il filo, tra una partitura hard poggiantesi su un riff di chitarra elettrica, con cori in sottofondo e rullate secche, o una più suadente melodia vocale accompagnata dall'organo e da effetti strani o chitarre laceranti, per il crescendo finale. 

Finisce la prima suite, "We", e s'apre la seconda, "The road to Agartha": l'album, a proposito, si compone solo di queste due suites, entrambe da 25 minuti abbondanti di durata, ma non è un problema: sdraiatevi e rilassatevi, non pensate, ascoltate solo. Non si fa fatica, la musica è varia e sempre accattivante al punto giusto, se amate le sonorità dell'epoca d'oro del rock. Se poi avete qualcosa (...) con cui accompagnare l'ascolto, ricorretevi pure, perchè la seconda suite è un vero e proprio viaggio nell'Oriente, con tutti gli strumenti (gong, sitar, bells, tzouras, duf, qaraqab, tamburini e chi più ne ha più ne metta) necessari per una filologica rievocazione esotica.

Siamo ora immersi in un vortice di bonghi e sitar senza fine. Il tempo s'è fermato, siamo persi nelle suggestioni indiane dei Beatles di Sgt. Pepper, e non vorremmo uscirne più. La noia non fa a tempo ad impadronirsi della nostra attenzione che la chitarra elettrica, ruvida e sporca, s'inserisce tra i ricami del sitar e vi dialoga, tra un wah-wah e un caldo assolo. Il tutto, sia chiaro, si regge sempre su giri armonici e melodici che permettono comunque di seguire questi folli e visionari svedesi senza annoiarsi mai.

A 5 minuti dalla fine si accelera di nuovo, col sitar che non smette mai di tessere il pezzo, pur a velocità ora sostenuta. Ancora assoli di chitarra, ora dialoganti col flauto e con qualche altro strano strumento chissà da quale deserto proveniente, per una asacensione finale trascinante e liberatoria, prima che un gong dichiari conclusa la fuga nel tempo.

Ora potete pure rialzarvi e reimmergervi nel traffico frenetico della tangenziale, e all'autista che vi mostrerà il dito medio per criticare la vostra andatura rilassata, risponderete senz'altro con un V (che sta x love & peace, fratello) !!!

La grafica, i caratteri stessi usati per le note, il digipack, la suddivisione in side A e B, la precisazione della totale registrazione in analogico... tutto ci riporta indietro negli anni, quando fare musica era libera forma d'arte e creatività, lontana anni luce da mere logiche di mercato.  

Lo so, sono retrò, per nulla innovativi, ma quì il problema è che loro non scimmiottano vecchie sonorità con suoni moderni (come ad esempio fanno i Flower Kings in un pur buono retrò-neo-prog,cercando d'innovare ma senza riuscirvi più di tanto). No signori. I Siena Root hanno inciso questo album nel 1970 e non ce lo avevano mai detto, facendolo uscire oggi pensando che non ce ne saremmo accorti... ingenui!!!

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