Sono venuto in possesso dell'ultima fatica dei Sigh fiducioso in un lavoro anche lontanamente accostabile al loro "Imaginary Sonicscape", un capolavoro che riusciva a portare aria nuova ad una scena stantia. Ma il rischio che si corre quando si suona del cosiddetto "avant-garde metal" (etichetta condivisibile solo per alcuni gruppi, a mio parere) è che poi tutta questa ostentata 'avanguardia' non ci sia: infatti la maggior parte dei dischi che ci vengono presentati con quest'etichetta non innovano un bel niente, non vanno oltre i canoni del metal classico e 'banale' per reinventarlo, ma si limitano al mero inserimento di strumentazione alternativa (synth a palla e violini a go-go) in un contesto a noi già familiare. E potevano essere interessanti i primi dischi di questo filone, ma sentire sempre la solita solfa prima o poi risulterà indigesto anche al metallaro che si sente 'open-minded' solo perchè nei suoi dischi metal, tra un growl e l'altro, ci sono squisiti passaggi di violino o pianoforte.
Ora... il magnifico e avveniristico "Imaginary Soniscape" aveva funzionato dove questo nuovo full-length, "Scenes From Hell", fallisce miseramente. Ammetto di non essere un fan della band e di essermi perso gran parte di quella che molti chiamano la loro evoluzione (da Imaginary Soniscape in poi, almeno), ma se sono arrivati ad un disco del genere, a mio parere, sarebbe più corretto parlare di involuzione. Se ogni pezzo del suddetto capolavoro (nonostante fosse sacrificato da una certa ripetitività) faceva urlare alla genialata, al 'colpo di scena' che in un disco metal non ti saresti mai aspettato (una sensazione elicitata da poche altre band, tra cui Arcturus, Manes e UneXpected), qui veniamo portati per mano nella fiera delle banalità tra uno sbadiglio e l'altro.
La prevedibilità fa da padrona in "Scenes From Hell", un disco che può risultare veramente avanguardistico solo per un neofita di questo genere/non genere dalle caratteristiche instabili. Sentita l'opener "Prelude to the Oracle", sentite tutte le altre: i ritmi sono ritornati serrati come una volta (e quindi più vicini anche al black metal degli esordi) e gli ottoni, pomposi e ridondanti, invadono la scena per quasi tutta la durata dei brani. Si ha continuamente la sensazione di ascoltare un disco autoreferenziale e barocco di cui, nel 2010, in tutta sincerità non si sentiva il bisogno, frutto di una band che oramai riposa sugli allori, avendo al suo seguito uno stuolo di fan pronti a urlare ogni volta al capolavoro. Ed è con triste rassegnazione che dopo cinque ascolti mi rendo conto che questi estrosi giapponesi hanno abbandonato i loro variopinti schizzi musicali fatti di cospirazioni nietzscheane, sogni scarlatti, trasformazioni estatiche per dare vita al solito noioso clone che andrebbe più correttamente annoverato nel filone del black metal sinfonico.
La preponderanza del sax aveva fatto sperare bene a un feticista dello strumento come me, così come la presenza del sommo guru dell'industrial più esoterico e del neofolk made in UK (David Tibet, che si fa comunque amare nonostante declami pochi preziosi versi), ma le attese non sono state assolutamente ripagate e tra tutte le soluzioni possibili per risolvere alcuni brani (ghirigori elettronici, trovate imprevedibili a là "Slaughtergarden Suite" che trasformavano un pezzo opprimente in uno quasi danzereccio!) si va a cascare nel solito assolo breve e velocissimo, che non fa' altro che aumentare la dose già considerevole di sbadigli.
Se avete amato questa band e il disco fondamentale che temo di aver già citato troppe volte, evitate questo polpettone pretenzioso che potrebbe decisamente indurre in inganno chi volesse avvicinarsi per la prima volta ai Sigh.
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