E se Ian Curtis avesse suonato a Pompei?

Parto dunque dalla fine, dall'Essenziale, parto dalla seconda metà di “Untitled#8”, che ha chiuso con parole che non so dire le due ore di questo bellissimo ed intenso concerto: il massimo dei voti si potrebbe dare anche solo per questi ultimi dieci minuti.

Chi li ha già visti lo sa, non è una novità per gli islandesi chiudere con il loro pezzo più sconvolgente, picco irripetibile della loro carriera e probabilmente della musica rock degli anni zero. Per chi vi ha assistito per la prima volta, invece, è stata semplicemente un'esperienza unica, un'esperienza intensa quanto difficile da spiegare. Le sensazione è quella di sentirsi partecipi di un momento importante della Storia della Musica: il crescendo infinito, dilatato, espanso, la tensione che cresce, il battito delle percussioni che sale, è tutto un fremito; Jonsi che squarcia l'atmosfera con il suo lacerante falsetto, Jonsi che bruscamente si allontana dal microfono, scuotendo la testa come colto da epilessia, come a voler trattenere dentro di sé la tensione straboccante, Jonsi che vi fa ritorno, dietro al microfono, per sconquassare nuovamente il cielo con il suo grido, e questo un'infinità di volte, troppe volte, è quasi insostenibile, è tanto intenso che si vorrebbe arrivare alla fine di tutto, come in attesa di un orgasmo che non vuole arrivare. E nel frattempo la musica cresce. “Adesso sbaglia l'attacco, aiuto, adesso sbaglia l'attacco”, ed invece, sempre un istante prima dell'imminente esplosione (che non c'è, che è sempre rimandata, ma latente, è sotto la superficie pronta a lacerare il velo della realtà, è prossima, molto prossima a manifestarsi), ed invece, si diceva, il falsetto di Jonsi torna ancora una volta a scuoterci l'anima, poi ancora niente, scuote la testa come Ian Curtis faceva dal vivo, poi la musica rimonta, il basso spezza l'aria con il suo titillare epico, la musica plana, la musica riprende vita, un'infinità di volte, cazzo! esplodi cazzo!, ed infine eccolo l'orgasmo, all'improvviso, atteso ma inaspettato nella sua irruenza, nella sua bellezza, nella sua capacità di disegnare immagini indescrivibili, eruzione di vulcano, pietre infuocate e lapilli dal cielo, mare grosso, croste di ghiaccio imponenti che solcano onde indomabili, il muro di chitarre, Jonsi piegato in due sulla sua, i colori, le luci intermittenti, l'accompagnamento sontuoso dei violini, le trombe dell'apocalisse, il grido liberatorio di Jonsi, il frenetico e tentacolare battito di Dyrason, che assume un profilo titanico, fra i piatti e i capelli scomposti, ricordandomi il Nick Mason nel celeberrimo “Live in Pompei”. E' questo il momento importante, in cui una volta tanto ho avuto l'impressione di trovarmi di fronte alla Storia, alla Storia della musica.

Con la mente non posso che fare un paragone con i Radiohead, che ho avuto modo di vedere dal vivo qualche mese fa. Radiohead e Sigur Rós sono probabilmente in ambito rock e derivati i migliori artisti oggi in circolazione, sebbene i secondi continuino a pagare un bel dazio ai primi (ed anche stasera si è sentito). Ma laddove i Radiohead hanno ormai superato il confine della perfezione (non capendo che più perfezione significa meno perfezione), i Sigur Ros, forse con minori ambizioni, mostrano una consapevolezza maggiore del loro status, di quello che possono e vogliono dare. I Sigur Ros sono una realtà importantissima degli ultimi dieci anni di musica, lo sanno bene e non sono degli sprovveduti, sanno di essere una perfetta macchina di emozioni e questo li rende perfetti stasera, cosa che non accadde qualche mese fa con Yorke e soci, nonostante stasera l'acustica non sia delle migliori e i volumi non all'altezza della situazione. Per esempio, se un normale apparato visuale (un semplice schermo su cui proiettare delle immagini - ma guarda che banalità!) è ormai cosa superata per i Radiohead, che oramai non sanno più cosa inventare per non apparire banali, i Sigur Ros, non hanno paura di suonare od apparire banali: a metà fra gli artisti avveduti e i bambini che ancora giocano con le emozioni, allestiscono uno spettacolo dove la scenografia minimale, sebbene raffinata e studiata, è il perfetto compendio per la loro musica. Da questo punto di vista vincono i Sigur Ros. Oltre che ovviamente nella scelta della scaletta dei brani da riprodurre, che è semplicemente perfetta: il realizzarsi di un sogno per ogni estimatore della band.

Il tour 2013 dei Sigur Ros ha il compito di promuovere il buon “Kveikur”, al quale ovviamente vengono concessi ampi spazi (ben cinque gli episodi tratti dall'ultimo lavoro degli islandesi) all'interno di una setlist che, alla stregua di un ideale greatest hits, sa toccare i momenti salienti di una carriera oramai più che quindicennale, con un occhio di riguardo agli album importanti della band: “Agatetis Byrjun”, “( )” e “Takk...”. L'assenza illustre del tastierista extraordinarie Kjartan Sveinsson, che di recente ha abbandonato la band per dedicarsi a progetti personali, non si fa sentire più di tanto, anche perché i tre superstiti si presentano sul palco accompagnati da un ensemble di tutto rispetto (tre archi, tre fiati, un tastierista e persino un secondo percussionista ed un secondo chitarrista, indispensabile quest'ultimo per rafforzare il sound laddove Jonsi si è concentrato principalmente sui languori noise-ambient procurati nel maneggiare il suo immancabile archetto). Non considerando poi la vocazione polistrumentista dei musicisti, che ha portato dietro il pianoforte o allo xilofono sia Jonsi che il batterista Dyrason.

Si parte con un brano calmo, “Ifirboro”, tratto dall'ultimo lavoro, che inaspettatamente scalza dalla pole position l'opener “Brennisteinn”, che giungerà puntuale un attimo dopo, imponendo fin da subito il sound muscolare che ha caratterizzato l'ultima fatica da studio (sporco e potente il basso di Goggi, che stasera si guadagnerà più di un momento di protagonismo). Ma è già tempo di classici, che iniziano ad essere molti, considerata l'elevata qualità dei lavori degli islandesi: si susseguono “Glosoli” (da “Takk...”) e la bellissima “Vaka” (alias “Untitled#1, dall'acclamato “( )”), aperta dagli inconfondibili suoni in loop che ne anticipano l'avvento: il primo momento veramente magico della serata, dove l'emozionante performance dei nostri è accompagnata da proiezioni che rielaborano il suggestivo video originariamente girato per promuovere il brano (quello dei bambini con le maschere antigas).

Il clima è quello del rituale mistico, il pubblico segue con religioso silenzio, le luci soffuse e le immagini rallentate, a sfondo naturalistico e squisitamente nordico, riprodotte in un grande monitor mobile, accompagnano le lente evoluzioni dei brani degli islandesi. Il canto di Jonsi è un soliloquio, un canto solitario che non può essere riprodotto in nessuna maniera dai presenti; la sua voce: perfetta, tanto che c'è da chiedersi “ma quando perderà quella voce, che usa come uno strumento musicale ed è la vera anima dei Sigur Ros, cosa farà la band? Chiuderanno baracca e burattini?”. I brani sono eseguiti con estrema fedeltà rispetto alle versioni in studio (salvo qualche dilatazione nei finali); sul lato dell'improvvisazione non avremo quindi grandi sorprese stasera, ma è già tanto che brani così sublimi semplicemente si materializzino senza grandi sbavature: il valore aggiunto, oltre all'immensa interpretazione di Jonsi, è dato dagli innesti di archi e di fiati che rimarcano i passaggi fondamentali delle composizioni, facendo sì che il suono acquisisca spessore e l'esibizione guadagni in intensità, laddove l'impianto di fondo rimane basato sul lento battito delle percussioni, gli arrotondamenti del basso e la sporcizia sonora della chitarra di Jonsi che incanta e fa sognare, un ondeggiare estetizzante dato dallo scorrere del suo archetto lungo le corde della chitarra.

L'orecchiabile “Isiakj”, uno dei momenti più riusciti di “KveiKur” (e probabilmente l'unico che rimarrà in pianta stabile nelle setlist a venire), con il suo fragore pop è una botta di vita che ci voleva: i brani dell'ultimo album, i più movimentati, sebbene mostrino meno spessore dei classici, sono saggiamente centellinati, costituendo provvidenziali boccate d'aria che animano un'esibizione che, a seconda dei momenti, rischia paurosamente di scivolare verso il soporifero. I Sigur Ros sono emozione allo stato puro, difficile stasera aspettarsi colpi di scena, salvo quelli dettati dalle pure emozioni evocati dalla loro musica. E' tutto enormemente soggettivo, bisogna quindi aspettare, saper aspettare il momento.

Una intensa “Saeglopur (sempre da “Takk...”) ci traghetta verso un altro importante momento, quello dedicato ai brani dello storico “Agaetis Byrjiun”. Il basso ipnotico che apre “Olsen Olsen” è già pelle d'oca, ma fra pause e ri-partenze il tripudio si ha nel finale, con l'avvento scoppiettante dei fiati, mentre le luci abbaglianti, con perfetto tempismo, per la prima volta squarciano la penombra che aveva dominato fino a quel momento. Si schiude così, con l'oscurità che torna a dominare (un'oscurità rischiarata da una costellazione di lampadine rosse, escamotage scenico di grande suggestione), un altro magico tassello da conservare gelosamente nella memoria: è il momento tanto atteso del classico dei classici dei Sigur Ros, quella “Svefn-g-Englar” primo loro singolo di successo internazionale, vero highligh di questa prima parte del concerto. Che dire, altri dieci minuti da manuale. Prima del rigurgito elettrico che conclude il brano (anche in questo caso verrà in soccorso un apparato visuale con i contro-fiocchi, la riproposizione del noto video – quello dei bambini affetti dalla sindrome di Down – ma in una forma rielaborata che ne conserva la poesia), assisteremo ad una lunga pausa in cui Jonsi canta sfruttando il microfono della chitarra: è solo, nel silenzio, nel buio, il suo grido è soffocato e lontano, vederlo sussurrare, con il volto schiacciato alla sua chitarra, in una atmosfera irreale, dai soffusi contorni onirici, è un altro momento che si incide con forza nel cuore dello spettatore (come quando, successivamente, il nostro si prodiga in un lunghissimo, chilometrico sibilo che stupisce, fra gli applausi, gli increduli astanti – non mi ricordo però il brano, pardon).

Dopo lo shock emotivo, l'estasi panica di “Svenfn-g-Englar” è letteralmente impossibile mantenersi sugli stessi livelli, e infatti il concerto prosegue sotto il profilo dell'”ordinario” con la nuova “Hrafntinna”, dall'incedere ritualistico e sgangherato (bello il lavoro svolto alle percussioni, facendo uso di mezzi non proprio convenzionali), per ripiombare nuovamente nella catalessi intimistica della bellissima “Varuo”, unico estratto dal penultimo e sottovalutato “Valtari”, brano che ci riporta ai Sigur Ros eterei delle origini, ma con quello sconquassante crescendo post-rock nel finale che certo avrà regalato brividi a più di uno spettatore. E' il turno di ancora due pezzi di “Takk...”: l'immancabile “Hoppipolla” e “Meo Bloonasir”, a cui segue la titletrack dell'ultimo album, altro pezzo prepotente, dall'incedere meccanico, che crea qualche movimento in platea. Il clima si sta scaldando, il pubblico salta e batte le mani, cerca di interagire con la band, che rimane chiusa dietro ad un muro di autismo, come se suonasse da un'altra dimensione. La chiusura del set è quindi affidata all'esaltante “Festival”, unico estratto da “Meo Suo i Eyrum Vio Spilum Endalaust”, l'album della svolta che non aveva convinto i più; il brano è comunque superlativo e ha il merito di costruire un punto di contatto con il pubblico, che nel frattempo si è definitivamente sciolto.

I nostri lasciano così il palco fra gli applausi, per ritornarvi subito dopo per i dovuti bis. Una mesta luce verde invade il palcoscenico, il ritorno sul palco coincide con i suoni apocalittici di un brano inquietante, teso, dark, drammatico, quasi atipico per i Sigur Ros, brano che personalmente non conoscevo, ma che mi ha colpito in modo estremamente positivo (scoprirò poi che il brano si chiama “I Gaer” è che è contenuto in “Hvarf-Heim”): sono i Sigur Ros più orchestrali ed epici quelli che regalano ai propri fa una chicca che non era lecito aspettarsi dopo così tante emozioni.

Parte infine l'arpeggio inconfondibile di “Untitled # 8”... ma quel che seguirà, signori miei, sinceramente, in estrema franchezza, non si può più descrivere...

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