Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer credeva che ascoltare la musica avrebbe permesso di liberarsi dalle catene della insensatezza della vita, dai morsi del bisogno, dai colpi e dalla follia della vita. La musica avrebbe potuto, anche per pochi secondi, aprire uno squarcio nel cielo di carta dell’uomo, ridotto a una mera e triste marionetta nel mondo che vola e smania in tutte le direzioni, senza alcuno scopo, senza direttive, nè consolazioni.

Nel 2002 quattro ragazzi dalla lontana Islanda decidono di mettersi all’opera, smettono di seguire la frenesia, la confusione del mondo che li circonda e cercano di costruirne un senso. Il risultato è ( ). In realtà Jón Þór Birgisson e i suoi sono attivi già da diversi anni, e hanno già avuto modo di stupire chiunque abbia incontrato la loro musica. Nel 1997 con Von (in italiano, ‘speranza’), due anni più tardi con Ágætis Byrjun (‘un buon inizio’): i Sigur Ròs alle soglie del 2000 stanno decollando lasciandosi alle spalle tutte le tossine della musica commerciale che li circonda. Musica commerciale: un ossimoro per chi si riconosce come artista, una parola senza senso per i quattro islandesi.

( ), ribattezzato anche Svigaplatan (il disco delle parentesi), include otto brani separati a metà da 36 secondi di silenzio assoluto. Uno spartiacque fra la prima parte, leggera e ottimistica, e la seconda, più inquieta e nostalgica. Gli otto brani non hanno titolo. Perché non c’è bisogno di un titolo, non c’è bisogno di dare senso a tutto, l’arte spesso è irrazionale. Il disco è interamente cantato in Vonlenska, una lingua inventata da Jón Þór Birgisson: una lingua musicale. Questa lingua era già stata utilizzata nei dischi precedenti, ma solo in alcuni pezzi. Ora, in ( ) questa lingua avvolge tutta l’opera, la accarezza con la candida voce di Jón Þór Birgisson, la permea senza schiacciarla, senza chiuderla in gabbia: senza darle un senso compiuto. Il Vonlenska è una lingua che non ha grammatica, ma consiste di sillabe senza significato. La voce così diventa puramente uno strumento musicale, capace di suscitare emozioni che a parole, evidentemente, non possono essere espresse. E garantisco che è la stessa sensazione che provereste ad ascoltare gli ultimi due brani del disco, ribattezzati "Dauðalagið" e "Popplagið": senza parole.

Per questo disco si sono sprecati giudizi come "paesaggi sonori che ricordando l’atmosfera dell’Islanda" ecc… Ma non è niente di tutto questo: ( ) è arte, senza compromessi, non definibile in concetti. Si può dire che la musica dei Sigur Ròs si situa tra il progressive e il post-rock, ma sarebbe riduttivo. L’ascolto attento di questo disco può trasportare in un‘esperienza mistica. Differente per ciascuno, ovviamente. Ognuno può dare il titolo che vuole ai brani dell’album, ognuno può scegliere quale significato dare alle sillabe cantate da Jón Þór Birgisson, ognuno è libero di decidere quale pennello utilizzare nel dipingere il viaggio mentale che inevitabilmente nasce dall’ascolto di ( ). Ognuno insomma è libero di scegliere di quale origine siano i brividi che sta provando mentre lo ascolta.

Schopenhauer pensava che la musica fosse l’arte che meglio poteva liberare dalle scorie dell’insensata volontà di vivere. Ma solo per pochi momenti, perché poi fatalmente si torna coi piedi per terra. Io penso che questo disco rappresenti invece il trionfo dell’insensatezza, l’accettazione serena di qualcosa a cui non si può e non si vuole sfuggire. L’unico modo per non scivolare nelle sabbie mobili. Il problema è che è solo ( ), una parentesi.

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