Se prima l’occhio dei Sikth si era posato sulla natura, umanizzandola, vestendola di veleno e rimpianti, pronta ad esplodere da un momento all’altro contro l’essere umano, ora la lente ha zoomato sulle città, le strade, l’informazione, la cultura, i miti e le paure. Nebbie e navi inabissanti. Tutto quello che è “human” provoca una rabbia sempre maggiore nei cinque inglesi di Watford (Hertfordshire).
Con “Death Of A Dead Day” (2006 @ Bieler Bros.) i ragazzi abbandonano quell’atteggiamento a volte ironico e irriverente per diventare più seri e arrabbiati. Non ci sono più alberi parlanti, dialoghi fra folletti dei boschi e altre amenità (certe immagini sonore del primo lavoro sarebbero state perfette per la marcia degli Ent di Tolkien). Qui si scende in strada per lottare contro un’altra foresta, di cemento. “Bland Street Bloom” primo singolo, è uno dei pezzi più potenti e ben suonati che il gruppo abbia mai presentato. Un ritmo forsennato che lascia fiato solo nel sincopatissimo ritornello. Qui si vedono i Sikth più genuini.
Quello che salta subito all’orecchio è il decisivo abbassamento della tonalità dell’intero lavoro. I mali umani hanno stremato al tal punto i Sikth che si sono lasciati prendere la mano. Il mood è decisamente più cupo e opprimente e il titolo dell’album è assolutamente esplicativo del senso di “morte dentro”. Un basso ed una batteria che non lasciano scampo imprigionandoti in un groviglio di metallo dal quale è veramente faticoso districarsi. Di luci se ne vedono poche fra mura, insegne stradali e grattaceli. I giochi a due voci dell’album d’esordio sono quasi spariti. I due cantati hanno diminuito l’escursione nell’interpretazione dei testi, risultando molto più omogenei e per questo meno divertenti. La cosa che lascia più perplessi è l’inserimento di coretti a due voci (“Summer Rain”), assolutamente non presenti nel primo lavoro, che starebbero bene in un disco Punk alla NoFx, ma che in un disco “spinto-metal” minano la dinamicità del flusso. Si è passati ad uno stile molto più granitico a scapito di quella sperimentazione e skizofrenia che li aveva avvicinati ai Dillinger Escape Plan o agli Slipknot più malati (“Tattered And Torn”).
Nel martellamento generale delle prime tracce spicca la melodia coinvolgente di “In This Light” in cui la speranza di una luce imperitura (“Like it won't ever rain here, In this light, In this light”) viene offuscata dai cambi umorali delle chitarre (“Let me sit right there, Sail, As the water lays under our skye”). Ma è solo un attimo che “Sanguine Seas Of Bigotry” , posta a metà disco, ti prende per le orecchie e ti ributta nel caos. Il doppio pedale ti schiaffeggia e ti rimette davanti alla realtà.
Le canzoni filano abbastanza lisce ma rimane un certo amaro in bocca ed è molto difficile a volte distinguerle una dall’altra. Il gruppo sembra imprigionato in quattro mura mentre osserva dalla finestra appannata la vegetazione moderna contorcersi su se stessa, senza capire cosa sia cosa. Ci vengono lasciati pochi momenti di ampio respiro come l’appassionata “Where Do We Fall?” che richiama in parte “The Peep Show” del primo album e la bella “When The Moment’s Gone” in cui le due voci, finalmente complementari, si lanci(na)ano in un ritornello lancinante. La tecnica è veramente impressionante come ci si aspetterebbe da cotanti musicisti ma una certa stanchezza compositiva affligge tutto il lavoro. Non a caso dopo la release di questo album il gruppo si scioglierà per permettere ai due cantanti, Mike Goodman e Justin Hill, di perseguire progetti da solisti.
In definitiva un disco riuscito a metà con molto tecnicismo e poche idee. Un vero peccato per una band che ben faceva sperare ma che forse non ha retto il suo stesso malessere interno.
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