Silvio Bernelli è nato e cresciuto a Torino. Classe 1965, dovrebbe fare parte di quella sparuta schiera di eletti (??) che durante la preadolescenza (età ,come sappiamo, cruciale per lo sviluppo del Giovane) ebbero la (s)fortuna di rimanere fulminati dal Verbo del Nuovo Rock.
Erano ancora i ‘70s, ricordate quei pazzeschi mutanti che giravano nelle città, non più Autonomi, non ancora Altro? Ricordate "Odeon, tutto quanto fa spettacolo"? Ricordate Michel Pergolani? Sembrerebbe proprio che anche il Nostro sia dei Nostri, visto che negli anni a venire diverrà bassista di gruppi come Indigesti e Declino, e Negazione.
In questo suo primo testo, edito nel 2003, ci racconta appunto la sua epopea nella Torino punk dei primissimi anni '80. Il libro scorre semplice e veloce, con qualche episodio simpatico e poche sorprese: storie d'amicizie di giovinetti, progetti, ansie, amori musica, studio, motorini...
Già, ma il punk dov'è? Chi l'ha visto?
Mi spiego: il volumetto non dice nulla di quella fondamentale esperienza che letteralmente cambiò la vita a tanti di "quella" generazione, di quelle situazioni che ci fanno pensare di avere vissuto in un universo parallelo, di quegli anni rapidi per cui portiamo ancora i segni e che ci fanno riconoscere al volo per la strada. Nulla.
Se Bernelli ci avesse raccontato di un gruppo di amici i quali al posto del punk si fosserto raccolti intorno alla passione per i motori, o per il modellismo, il birdwatching, il risiko o qualsiasi altra stupida smania giovanile, il romanzetto avrebbe potuto avere esattamente lo stesso svolgimento e lo stesso (scarso) pathos. Scavando nella memoria non trovo quasi nessun punto di contatto fra il vissuto di quegli anni e la vicenda adolescenzial-borghese di questi cocchi di mamma; punti di contatto che invece emergono vistosi in molti degli altri testi scritti da protagonisti di quella stessa scena (cito fra gli altri Roberto Perciballi, Riccardo Pedrini e addirittura il "sospetto" Marco Philopat). Una parziale spiegazione ce la fornisce l'autore stesso che a pagina 40 scrive: "Nei testi dei Declino si delineò una vena intimista. Gli slogan lasciavano il posto ad una formula personale che sarebbe poi stata il nostro marchio di fabbrica. Il messaggio di fondo era semplice: stai con i tuoi amici ed ignora tutti gli altri ambienti. La famiglia, la scuola ed il lavoro erano per le persone regolari: tutte quelle che non seguivano l'hardcore".
Quella che Bernelli definisce "Una vena intimista" non è altro che il riflusso che molto presto ha inghiottito il punk nella deriva del qualunquismo e nelle secche dell'autoisolamento (centri sociali diventati come ghetti).
Sia nella lucida analisi sociopolitica di Philopat che ruvida consapevolezza del teppista Perciballi o nella sfaccettata e creativa realtà bolognese di Pedrini il messaggio che emerge è esattamente l'opposto: Stai fuori, in giro, per la strada; senti sulla pelle la realtà pulsante, rompi i coglioni, leggi tutto il leggibile, ascolta tutto l'ascoltabile, non ti fare fottere dalla retorica dell'adolescente al chiuso della sua cameretta!! Di più: L'autore difende con tenacia la sostanziale diversità e "purezza" del punk, laddove invece il bello era proprio sporcarsi le mani, mescolarsi con tutto e tutti, essere insomma sempre pronti a fare inceppare il meccanismo.
Se c'è un merito duraturo da attribuire al punk che vada oltre l'aspetto musicale e di costume è proprio la curiosità, la spinta a vedere le cose sempre dall'altro punto di vista, il rovesciamento dei canoni in funzione creativa (come? destroy? si, si...). Ma lo spuntare ad ogni angolo di tanti "Bernelli" fece ben presto passare la voglia ai giovani coatti metropolitani, poi gli anni '80 fecero il resto...
E adesso chi glielo dice a Silvio Bernelli che il punk gli è passato vicino ma lui si è scansato?
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