Partiamo da una considerazione: in realtà, mi riferisco alla maggioranza delle persone chiaramente (me compreso), non sappiamo nulla di cosa sia veramente l'Isis. Di quali siano effettivamente le origini, il funzionamento, le strutture sociali e organizzative (non solo sul piano militare) di quello che si è voluto autodefinire come 'Stato Islamico', ovvero 'Dawlat al-'Islamiyyah', un nome il cui significato deriverebbe direttamente da quella che sarebbe una realizzazione dell'Islam sunnita nella sua versione più rigorista - e tra le altre cose almeno formalmente coincidente con quella che poi sarebbe la religione di stato in Arabia Saudita e nell'emirato del Qatar e quella stessa ideologia ispiratrice dei talebani afghani e pakistani e di tutte le manifestazioni di Al Qaeda. Di cui, bene precisare da subito, l'Isis non costituisce una qualche estensione, ramo oppure proseguimento. I funzionamenti e i propositi delle due organizzazioni terroristiche sono differenti sotto molti aspetti e in fondo forse non potrebbe essere altrimenti pure considerando che il tempo passa e le cose, tutte le cose, cambiano. Anche se questo fa paura è primariamente proprio a questo tipo di organizzazioni che in fondo non pretendono che fondare almeno per quello che riguarda l'apparenza, i propri fondamenti su quelle che sarebbero strutture secolari e che come tali non avrebbero alcun senso di esistere oggi.
'Ho scelto di vivere all'inferno' (Imprimatur editore, 2016), nonostante la mia introduzione, tanto doverosa quanto forse ingannevole sui contenuti specifici dell'opera, non vuole tuttavia essere esattamente quello che potremmo definire come un saggio che risponda nel dettaglio ai dubbi e le domande cui ho accennato precedentemente. Questo sebbene il testo sia per forza di cose un lavoro documentato e competente, dove non manchino riferimenti anche storici a come il fenomeno sia nato, quali siano le sue basi ideologiche e come sia divenuto infine una realtà concreta nel medio-oriente e con cui fare per forza i conti anche in Europa e quello che chiamiamo mondo occidentale. Un lavoro che peraltro si avvale anche di collaborazioni e testimonianze importanti, due post-fazioni scritte rispettivamente dalla giornalista Simona Ciniglio e l'arabista Rosemary Fanelli, oltre una introduzione di Edward N. Luttwak, personaggio che per forza di cose, non ho mai amato per le sue posizioni politiche e ideologiche e per il suo carattere arrogante e che in un format come quello dei talk-show, che spesso diventano delle vere e proprie bagarre, finisce inevitabile per essere amplificato. Ciononostante comunque storicamente un conoscitore di tutto quello che avviene in quella parte del mondo e dei retroscena svelati e non svelati che coinvolgono i soliti USA e che qui, in maniera concisa e puntuale, non si risparmia comunque in una giusta condanna dell'Isis e nel lanciare quella che ha tutta l'aria di essere una frecciatina nei confronti dei cosiddetti 'stati canaglia' come l'Arabia Saudita, legato storicamente da un rapporto con gli USA che non possiamo non definire almeno controverso.
Scritto dal giornalista e scrittore Simone Di Meo, che per lo più si occupa di cronaca e in una città complessa come quella di Napoli, dove scrivere di criminalità organizzata e cronaca giudiziaria è oltre che quella che egli stesso definisce una vera e propria 'palestra', qualche cosa per forza di cosa terribilmente difficile; questo libro non è un saggio né una ricostruzione storica e analitica dei fatti. E neppure del resto pretende di esserlo. È tuttavia un testo tremendamente attuale e ricco di contenuti in qualche modo inediti o comunque poco (quasi mai) argomentati dai media. Premesso che Di Meo sa benissimo di cosa sta scrivendo, ha del resto già scritto di Isis ('La soldatessa del califfato', Imprimatur editore), la narrazione in quello che potremmo definire come un libro intervista, le 'Confessioni di un terrorista dell'Isis', è affidata a quello che è stato a tutti gli effetti un membro attivo, fino a raggiungere anche una buona posizione all'interno delle sue strutture militari, dell'organizzazione dal 2011-2012 fino a quando, nel 2015 grazie a circostanze fortunate, in un certo senso uniche (uscire fuori è qualche cosa di molto molto difficile) e l'apporto dei servizi segreti americani con la partnership delle forza di intelligence di un paese occidentale e europeo di cui non può per ragioni evidenti fare il nome, è riuscito a tirarsi fuori da tutto questo orrore. Quello che egli stesso ha voluto definire come un inferno in terra.
La storia che Bechir, questo è il nome del protagonista e il narratore delle vicende, e che egli stesso dichiara di avere raccontato dietro suggerimento di quella che poi sarebbe sua moglie Aicha, la donna che lo ha seguito all'inferno e ritorno e con cui tuttora vive in uno stato di esistenza dove tuttavia gli appare impossibile riconciliarsi con qualche cosa che significhi, 'amore', comincia inaspettatamente su quello che è un campo di calcio. Che poi è dove quasi tutti i bambini fino a diventare ragazzi e poi magari da adulti, proprio come Bechir, dei calciatori professionisti, inseguono più che il pallone, quello che in qualche modo è una vera e propria materializzazione di una specie di sogno. Qualcosa che a volte può persino coincidere con la ricerca della felicità. Una felicità che senza volere scadere in una facile retorica e sicuramente anche abusata dalle cronache sportive, a molti di questi calciatori, proprio come Bechir, che arrivano ai massimi livelli attraverso sacrifici e dopo una esistenza di stenti e un passato violento, è mancata tutta la vita. E che evidentemente può continuare a mancare anche dopo, se è vero che, incapace di riuscire a collocare in qualche modo se stesso nelle strutture della società e di cancellare un passato e una infanzia dura e fatta di miseria e di violenze, Bechir, convinto dal forte carisma di un suo ex compagno di squadra che aveva già aderito allo Stato Islamico, improvvisamente e senza pensarci troppo, molla tutto e parte per la Siria.
Risparmierei per quello che riguarda il racconto fatto da Bechir, quelle che sono nel dettaglio le descrizioni degli atti di violenza nel particolare delle loro esecuzioni e le modalità organizzative. Le cosiddette 'scene d'azione'. Questo non per disinteresse o poca rilevanza, anzi, ma si tratta oggettivamente di cose che in qualche modo la cronaca anche quotidiana ci racconta, così come è nota la gravissima situazione in cui sono costrette a vivere le donne facenti parte, per propria volontà e scelta oppure, più frequentemente, nella maggioranza dei casi perché costrette, rapite, sequestrate o ingannate o forse più semplicemente perché non conoscono alternative, di quello che si definisce Stato Islamico e che le considera e le tratta come una proprietà, della merce e questo chiaramente a prescindere dalla loro età. Molto spesso del resto parliamo di quelle che sono delle vere e proprie bambine. Figure, perché non possiamo a questo punto parlare di 'donne' dato che tutto quello che riguarda la loro umanità viene letteralmente soppresso, e che idealmente questa struttura sociale avrebbe la pretesa di preservare, ma che sono praticamente costrette a quello che è uno stato di schiavitù che poi è in primo luogo psicologico.
Mi soffermerei invece su tre punti che considero in qualche modo 'inediti', perché non costituiscono il solito materiale dato in pasto ai media occidentali, neppure di altre parti del mondo del resto, ovviamente molto più interessati per fatti di audience a raccontare fatti scabrosi, la ripetizione quasi pedissequa di situazioni e schemi e volti a delineare presso quella che potremmo definire la loro audience una vera e propria idea di 'Isis', che a procedere in quella che potrebbe essere invece una vera analisi dello stato delle cose andando al cuore della questione.
La prima cosa che colpisce, procedendo in una specie di ordine cronologico dei fatti, è che apparentemente entrare a fare parte delle milizie o comunque dell'organizzazione (molti possono non essere considerati idonei ad azioni militari ma non vengono per questo rifiutati ma impiegati in settori amministrativi di vario livello) dello Stato Islamico appare tanto semplice quanto è poi invece difficile se non impossibile uscirne. Bechir, che in fondo nella sua vita non è mai stato quello che si potrebbe definire un fondamentalista, che non costituisce neppure una figura border-line perché cresce in situazioni disagiate ma nel tempo riesce a emanciparsi culturalmente e socialmente, in una fase negativa della sua vita, cede praticamente a quello che è una specie di corteggiamento via mail di un suo ex compagno di squadra, Nidhal Selmi, una figura particolarmente carismatica e una ex grande promessa del calcio tunisino e dell'Etoile Sportive du Sahel e di cui le cronache hanno parlato molto due anni fa in occasione del suo decesso. La sua scelta è repentina e, chi lo sa, forse anche perché referenziato, il suo accesso in questo mondo avviene senza traumi particolari. Anzi. In breve e in virtù delle sue capacità fisiche e atletiche oltre al fatto abbia una formazione culturale e sociale e una disciplina e in un contesto ove la maggioranza dei miliziani è chiaramente per lo più composta da gente che non ha alcuna nozione di nessun tipo, raggiunge anche una posizione elevata all'interno delle strutture.
Quindi il ruolo fondamentale dei social e in generale dei mezzi di informazione, la propaganda ad alto livello. Dimenticate Bin Laden e i suoi filmati video improvvisati da guerrigliero dall'interno di una grotta. Quelle che seguono le milizie dell'Isis sono delle vere e proprie troupe cinematografiche (con quelli che sono dei veri e propri specialisti provenienti da ogni angolo del mondo). La vita di ogni miliziano è seguita e documentata in ogni momento e azione e fino al momento del suo decesso, dove il suo volto viene mostrato in videocamera per forza sorridente in una maniera che considererei iconoclasta e che proprio per questo dovrebbe essere lontana dalle logiche dell'Islam.
Allo stesso modo, ne abbiamo già accennato, è centrale il ruolo dei social come nella propaganda (tutti questi filmati circolano e sono diffusi si tutti i maggiori canali social del web), anche nel reclutamento di miliziani da ogni parte del mondo e anche e soprattutto per quello che riguarda l' 'arruolamento' di donne al servizio dello Stato Islamico. Decine, centinaia di profili Facebook di miliziani sono gestiti direttamente da delle donne dello stato islamico (evidentemente meno grezze del classico miliziano barbuto), che letteralmente, fingendosi dei romantici rivoluzionari dediti a una grande causa, seducono queste più o meno giovani donne convincendole a aderire a una causa che in realtà non esiste e per sgombrare il campo da ogni equivoco, pretende solo di avere una ratio e dei fondamenti di base religiosi. Perché la religione qui non c'entra nulla: Isis è chiaramente qualche cosa di deviato. Un vero e proprio regno dominato dalla violenza e che al contrario di quanto possa sembrare, vanta una organizzazione al suo interno meticolosa sotto ogni aspetto. Questo anche per quello che riguarda poi il trasferimento delle donne di cui prima dal loro paese d'origine fino alla Siria.
Lo Stato Islamico non è qualche cosa di improvvisato. Ha una sua vera e propria, rigida struttura amministrativa. È organizzato anche sul piano contabile, le cui finanze sono rese floride dai 'sequestri', la vendita di opere d'arte via internet e attività illecite, business internazionali di proporzioni enormi a partire dal traffico e commercio di petrolio è quello della droga e fino a un sottobosco che può comprendere la vendita di filmati video di stupri di gruppo. Una struttura amministrativa impeccabile, quindi, e che vanta anche quella che si può definire una contabilità particolare e comprensiva di quello che è un resoconto minuzioso e dettagliato di ogni operazione militare e di quella che è stata la sua organizzazione, svolgimento, risultati, questo sua a scopo anche propagandistico (oltre che statistico), proprio come voler trarre le somme del frutto del proprio lavoro, ma anche allo scopo di migliorare e differenziare la tipologia degli attacchi. Che è, come noto, altra caratteristica dell'Isis.
Tutti questi aspetti, ripeto, vengono raccontati dal di dentro e da una persona che aveva un ruolo attivo importante nelle milizie e che in quanto tale godeva anche di benefici, ma che allo stesso tempo sicuramente non deteneva alcun potere, nel senso che non era uno dei capi, i grandi barbuti. Ciononostante e senza lasciarsi trasportare troppo sul piano emozionale, le sue testimonianze dirette delineano quella che è una struttura priva di ogni contenuto morale, sociale in senso democratico e soprattutto culturale, eppure a suo modo dotata di una organizzazione efficiente, funzionale, persino impeccabile e forte di uno strumento, la propaganda, che in combinazione con l'uso della violenza e la presenza massiva di militari, costituisce qualcosa di deviato e a modo suo inattaccabile dall'interno. In questo senso, fare un parallelo con quello che fu l'orrore e la pazzia del nazismo non è qualche cosa di sbagliato, ma che probabilmente si deciderà di prendere sul serio solo quando. A. Si smetteranno del tutto i panni di essere in una guerra di religioni, una cosa che costituisce sempre e comunque un facile alibi per tutti. L'Isis è iconoclasta, sul piano religioso costituito su un sistema a caste che poi coincide con quello di chi detiene il potere, lo Stato Islamico si può considerare qualche cosa di molto vicino al sogno della purezza ariana di Hitler. Una mission che ha contenuti carichi di violenza e di odio e che trascendono la 'fede' e le credenze di chiunque. Del resto i primi a farne le spese sono gli abitanti dei posti occupati. L'Isis fonda la sua forza sul potere economico, il commercio illegale e la propaganda, ma soprattutto sulle armi. In questo senso, sì, rinnovando una centenaria tradizione di armi e di violenza in Medio Oriente e che continua in alcuni frangenti a avere ancora supporter di ogni appartenenza politica. B. Il mondo occidentale e l'Europa in particolare, si renderanno conto che affrontare questa questione e in particolare nello scioglimento dei vari nodi interni in materia sociale e di sicurezza, costituisce qualche cosa che nei processi di crescita e rafforzamento, arricchimento del patrimonio culturale e del funzionamento dell'UE è per forza un passaggio chiave. Qualcosa di fondamentale anche nel creare un rapporto sano e costruttivo, reciprocamente, con quelli che sono gli Stati arabi che affacciano sul Mediterraneo e che sono sempre stati nostri vicini e con cui condividiamo e abbiamo condiviso nel corso della storia molto e questo ancora da prima che si parlasse di religioni monoteiste. Prendere una posizione importante sulla questione e anche fidando nei rapporti diplomatici internazionali e operazioni di intelligence, quindi isolare lo Stato Islamico, presentarlo tutti per quello che è realmente, ma per farlo anche qui bisogna che la UE assuma politiche uniche e condivise in materia di politica estera.
Il terzo aspetto del resto riguarda proprio le attività di commercio che lo Stato Islamico svolge con i paesi ad esso confinanti. Quello fondamentale è ovviamente ancora quello del petrolio, cui va chiaramente aggiunto quello che è il grandissimo e inquantificabile business legato allo smercio della droga. C'è una frase menzionata da Bechir nel libro al riguardo in cui dichiara al riguardo che l'Isis avrebbe sconfitto l'Europa con i soldi guadagnati vendendo loro la loro stessa 'merda'. Anche se qui va sottolineato come del resto l'uso di sostanze stupefacenti presso tutti gli adepti dell'Isis sia praticamente una vera e propria regola.
Come entrano petrolio e droga dallo Stato Islamico negli stati confinanti e in particolare in Europa? Quanto sono coinvolte le istituzioni dell'UE, i servizi segreti e/o comunque le organizzazioni criminali operanti all'interno dei singoli paesi e come può eventualmente una battaglia seria per quello che riguarda i controlli e le attività di policy nell'amministrazione interna dei singoli stati essere efficace in tal senso? I fatti dicono che quanto viene fatto ad oggi non è assolutamente sufficiente, se non praticamente inutile, mentre è altresì evidente che una scelta comunitaria collettiva forte potrebbe forse cambiare le carte in tavola in tal senso e affondare un duro colpo alle finanze e le ambizioni dello Stato Islamico. Per quanto riguarda questo aspetto, che è centrale sia per il futuro dello Stato Islamico che della intera UE, essendo questo un libro-confessione, una testimonianza diretta di Bechir e raccontata e pilotata dalla bravura di Simone Di Meo, per evidenti ragioni di sicurezza e anche utili evidentemente anche ai fini operativi per le forze di intelligence, ma probabilmente anche per quelli che potrebbero essere limiti conoscitivi sulla questione dello stesso Bechir (che non possiamo del resto considerare per forza a conoscenza di tutti i retroscena e le implicazioni internazionali del caso), tutto quello che è contenuto nel libro riguarda, oltre che considerazioni dell'autore sui fatti, la mera narrazione dello svolgimento di questa tipologia di operazioni svolte direttamente da Bechir in prima persona e dove in verità egli stesso sembrerebbe in qualche modo trasmettere il senso di incertezza e di insicurezza relativamente le condizioni in cui si ritrovava ad operare. Sensazioni che per forza di cose facevano e hanno fatto di lui solo una rotella in un ingranaggio che poi è un rompicapo così grande e difficile da comprendere in tutti i suoi aspetti. E allora benvengano operazioni letterarie come questa, in cui lo scrittore e il lettore sono quasi per forza di cose portati persino a immedesimarsi nella narrazione diretta dei fatti e che fanno di questo aspetto e di questa empatia una chiave di lettura importante del fenomeno proprio nei suoi aspetti più elementari. Che non sono per questo quelli meno rilevanti. Al contrario.
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