Ho conosciuto i Simple Minds quasi per caso, al palasport di Torino nel 1980, facevano da supporter al Peter Gabriel solista del terzo fantastico album. Di bianco vestiti e incipriati, all’inizio mi sembravano semplicemente dei Bryan Ferry sbiaditi. Ma Peter aveva visto lungo con i ragazzi di Glasgow e non si sbagliava. In realtà “le menti semplici” venivano da qualche album acerbo, se non puramente calligrafico, ma con la svisata mittle-europea di Empires & Dances qualcosa era cambiato. Gli anni 70 erano alle spalle, i semi sparsi dal punk germogliavano ovunque in mille differenti forme. Insomma, c’era la sensazione di aver imboccato la strada giusta, quella che portava diretta alla musica che conta. I tempi erano dunque maturi per delle scelte più coraggiose e meno derivative; qui i Simple Minds gettavano le basi per un futuro che sarebbe potuto essere eccezionale. E così fu.

Il tempo di serrare le fila con un produttore esuberante e un pò barocco come l’ex fricchettone Steve Hillage, fortemente voluto dalla loro nuova casa discografica Virgin Records e la band si riversa in studio in pieno fervore creativo. Jim Kerr e soci si trovano tra le mani un mucchio di ottime canzoni e decidono di allocarle su due album gemelli, anche se in realtà “Sister feeling call” risulta essere più un’appendice che un’opera a se stante.

Le canzoni di “Sons & Fascination” hanno poco in comune con gli album precedenti. Se, come detto, “Empires & Dances” ammiccava alla decadenza della cultura mitteleuropea in quella linea immaginaria che univa Costantinopoli a Berlino, qui il riferimento diventa l’America, con la sua forte contaminazione culturale. Rimane forte il concetto del “viaggio” come denominatore comune della scoperta di mondi alternativi e culture differenti. Musicalmente invece le cose evolvono. Le ritmiche ossessive restano ma spesso rallentano. Altre volte si rarefanno e diventano impalpabili; in realtà sanno librarsi in un limbo ipnotico e contagioso che le rende (con)vincenti come mai prima. Ad esempio l’iniziale “In trance as mission” è una fantastica cavalcata elettrica dove il ritmo incalza cupo senza soluzione di continuità fino a creare un vero e proprio muro sonoro. Qui la forma canzone ne esce ribaltata dal classico schema strofa e ritornello, qui si fa la conta con una nuova e convincente formula espressiva, la stessa che farà di “How soon is now” il vangelo degli Smiths e che regalerà gloria eterna a “Bela Lugosi’s dead” dei Bauhaus. Così le nuove coordinate sono tracciate. Un pizzico di Krautrock, il Bryan Ferry di Bogus Man ma anche gli echi lontani dei Wall of Voodoo di Stan Ridgway - era Call of the west - e lontanissimo sullo sfondo sempre lo spettro dei Velvet di zio Lou. Come in “Sweat in Bullet” ad esempio, singolo forse poco immediato ma grandissimo modello di dance song dal ritmo sghembo e frammentario, lontana un mondo dalle banalità dell’electropop. In questo senso risulta quasi disturbante la successiva "70 Cities As Love Brings The Fall" dove un sintetizzatore imbizzarrito come una mucca al macello spariglia il cantato di Jim Kerr, senza rispetto per la splendida apertura melodica del ritornello. Ci vedo un caleidoscopio di influenze e molto coraggio. E tanta inglesissima sensibilità new wave, perché di questo stiamo parlando, della miglior new wave in circolazione ai tempi, insieme a quella dei Japan di David Sylvain.

La batteria si fa ancora più sincopata nei fremiti di “Boys from Brazil”, intrigante collage sonoro ma a mio parere la canzone meno riuscita di tutto il disco, fortemente in debito con arrangiamenti troppo carichi e con una melodia che non decolla mai.

Facciata due, e si torna improvvisamente indietro al disco precedente. Le sonorità diventano più tradizionalmente post punk e “I travel” trova la sua degna erede in “Love song”. Fu un Instant classic nei club di darkettoni che scuotevano la testa al ritmo ossessivo di “Blue Monday” e di “One hundred years”. Memorabile. Poi subito dopo un pezzo lento e ipnotico, una ballata che ha in parte la “lunarità” dei Cure di Seventeen Seconds e in egual misura il fascino decadente del Bowie di Ashes to Ashes: “This Earth you walk upon” risulta quantomai anomala e sfidante per un “semplice” gruppo figlio del punk. Qui ci si accorge una volta ancora che siamo di fronte a qualcosa di diverso e qualcuno ai tempi iniziò a scomodare aggettivi ingombranti come “epico” o il meno nobile “enfatico”. Non stiamo parlando di Human League o di Gary Numan comunque, non siamo dalle parti dei Flock of Seagulls per intenderci ma molto vicini al crepuscolo di “Neon Lights” dei Kraftwerk piuttosto.

La canzone che da il titolo all’album non mantiene invece le aspettative create e risulta in fondo qualcosa di poco più di un riempitivo tra la precedente “This earth you walk upon” ed il pezzo che io ritengo l’assoluto capolavoro del disco nonché la sua splendida chiusura. Di ballate sintetiche ed emozionanti come “Seeing out the angel” i Simple Minds non riusciranno a costruirne mai più ma questa può bastare per i posteri. I ritmi rallentano una volta ancora e il mosaico costruito sulle trame elettriche dei sintetizzatori e della chitarra di Burchill creano un tappeto sonoro finemente intrecciato. Elettronica certo ma con un cuore grande. Jim Kerr canta come non mai, senza ancora la verbosità ed il protagonismo di qualche anno dopo. L’effetto finale, ribadisco, è magnifico e si perde nella struggente ripetitività del refrain che sembra non volerci lasciare mai. Su YouTube ne ho trovato una versione in loop da 37 minuti e quando la metto su li trovo ancora pochi! Comunque, battute a parte, “Sons & fascination” è un disco straordinario perché fotografa con assoluta lucidità e perfezione l’epoca di transizione di una band che pensava di diventare grandissima ma non si era accorta di esserlo già. Da qui a poco i Simple Minds perderanno progressivamente la loro magia e la loro sensibilità, così come la voglia di sperimentare. Le canzoni, seppur bellissime, diventeranno inevitabilmente commerciali e passerà la voglia di sezionare i suoni e spezzare le ritmiche per rielaborare tutto quanto in una dimensione meno convenzionale. Qui invece è ancora tutto insieme, siamo nel territorio di confine dove la musica “alternativa” sfiora pericolosamente quella “danzareccia”, senza paura di sbagliare però e senza l’ossessione di andare in classifica. Una musica che è sintesi di un’epoca irripetibile, dove Giorgio Moroder diventa modello di riferimento esattamente come Johnny Thunders in una improbabile e definitiva contaminazione stilistica.

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