I Simple Minds sono un gruppo la cui nascita si collega direttamente a quel fenomeno imprescindibile che è il punk e a tutto quello che immediatamente gli succede. Dopo aver mosso i primi passi distinguendosi per un suono innovativo che aveva avuto come protagonista una primigenia combinazione ancora non eccessiva tra tastiere elettroniche e chitarre in grado di strizzare l'occhio ai ritmi ballabili di fine anni '70, si incamminava in un percorso discografico che aveva visto la pubblicazione dell'elegante "Life In A Day" (1979) quanto dell'avanguardista "Real To Real Cacophony" (1979) dimostrandosi a suo modo innovativo. L'oscuro "Empires And Dance" (1980) pone le basi ad un approccio art-rock che vedrà la sua sublimazione con la riuscita accoppiata di "Sons And Fascination" e "Sister Feelings Call" con cui il gruppo esordirà per la Virgin.
Il 1982 è segnato dall'uscita di "New Gold Dream (81,82,83,84)" in cui il rock riesce a fondersi con classe ad elettronica e melodie di presa, lasciando a "Sparkle In The Rain" (1984) il non facile compito di ampliare il cammino musicale intrapreso, virando verso sonorità più penetranti che anche per mano della quotata produzione di Steve Lillywhite, non erano molto lontane da quanto realizzato in quegli anni dagli irlandesi U2. Per uno scherzo del destino il successo arriverà con un brano non proprio, "Don't You (Forget About Me)" (primavera 1985); scritto (inizialmente per Billy Idol) a quattro mani dalla coppia Shift-Forsey per la colonna sonora di "Breakfast Club", lascerà il compito dell'affermazione planetaria al multi-seller "Once Upon A Time" (ottobre 1985) che cavalcando atmosfere più piacevolmente rock-pop, regalerà al gruppo meritata fama e vagonate di dischi venduti, rappresentando la giusta ricompensa per due lustri di instancabile ed onesta attività musicale.
Al primo ascolto "Street Fighting Years" - pubblicato a quattro anni dal precedente, - mostra una ritrovata comunicazione implicando il tentativo di stabilire nuovamente un contatto con i propri fedelissimi, senza tradire chi aveva subito il fascino di sentirsi vivi e vegeti. C'è una volontà dichiarata ad usare le canzoni come veicoli liberi di circolare, che aiutando la divulgazione di un messaggio, si mostra in grado di sfuggire ad un qualsiasi tentativo di arginarne la propagazione. Il suono riesce ad essere sempre viscerale ed a non tradire mai confluendo nella prevedibilità, generando nel contempo sentimenti di protesta e di condivisione.
La schiettezza delle riflessioni autobiografiche di Kerr passa per la leggerezza di "Soul Crying Out" che ben si collega al tormento espresso attraverso lo slancio ritmico di "Take A Step Back", in grado di fare il paio con l'impeto di "Wall Of Love" quanto ad urgenza espressiva. Il singolo incaricato di traghettare l'album in classifica attraverso l'airplay è "Belfast Child" (rielaborazione dell'irish traditional "She Moved Through The Fair") che trasmette con una certa sontuosità, la consapevolezza di un'inesistente luce alla fine del tunnel, come l'esplicito bianco e nero del clip di Andy Morahan riesce a far intendere.
E' la vincente successione dei tre accordi iniziali al pianoforte di "Mandela Day" a sottolineare l'importanza di un messaggio che lontano da velleità di carattere politico, riesce nell'intento di essere recepito anche da chi vede nella musica solo un fuggevole momento di distrazione, lasciando all'ode di "Biko" (scritta da Peter Gabriel) il compito di permeare le coscienze. La rabbia eloquente che esce dalla title-track (ispirata all'uccisione di un amico di Jim Kerr), è il perfetto equilibrio all'eleganza di "This Is Your Land", senza compensare appieno l'eccessiva rarefazione che fa di "Let It All Come Down" la traccia meno intrigante.
Quest'ottavo album del gruppo scozzese rappresenta musicalmente sia l'inizio di una nuova fase - già inaugurata dopo il concerto alla Wembley Arena del giugno del 1988, - quanto la prosecuzione del proprio cammino, su di un sentiero in grado di rappresentare quei paesaggi sonori che avevano portato alla conferma universale raggiunta con il disco precedente e poi celebrata con il live "In The City Of Light" (1987). Un energico lavoro di impegno che puntando sulla prevalente ed istintiva creatività del trio Kerr-Buchill-McNeil e finalizzato al riavvicinamento con i fan venuto (forse) a mancare negli ultimi anni, che porta alla realizzazione di un disco di buona qualità e che vede la luce dopo un anno di incisioni, mostrandosi - per via della provata validità, - anche debitore all'esperienza di Trevor Horne e Stephen Lips avvicendatisi con sapienza dietro la consolle.
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