Dio potrebbe non essere di sesso maschile bensì femminile; a pensarla così è Sinéad O'Connor, convinta che forse solo una donna (e di conseguenza il "suo" Dio) sia in grado di percepire realmente il dolore e l'amore (soprattutto quello materno). E' più o meno questo il significato di Universal Mother, che uscì nell'autunno del 1994, due anni dopo il flop dello strampalato album di cover jazzy Am I Not You Girl?, ma anche dopo la foto stracciata, le critiche alla società americana in diretta TV, gli sberleffi da parte di illustri colleghi e la bellissima collaborazione con Peter Gabriel per US. Chi, dopo tante controversie e l'insuccesso, si sarebbe aspettato un furbo e atteso ritorno alle rassicuranti sonorità di I Do Not Want What I Haven't Got, rimase spiazzato per l'ennesima volta: la O'Connor con quest'album sembrò infliggere il definitivo colpo di grazia al suo già precario ruolo di rockstar di successo.

Il disco è strutturato in maniera particolare, si apre e si chiude infatti con dei pezzi (molto diversi tra loro) arrangiati in chiave piuttosto moderna e che sembrano quasi delimitare, "proteggere" il vero cuore di Universal Mother, costituito invece da brani caratterizzati da un'ossatura strumentale più scarna e semplice, ma non per questo meno incisiva. L'avvio è folgorante, dopo un breve incipit recitato (non da lei) sul ruolo della donna ecco arrivare, come un pugno allo stomaco, la splendida Fire On Babylon: un battito oscuro, magmatico, una base molto elaborata (vicina a certe sperimentazioni elettroniche della prima Bjork) su cui la O'Connor, con una voce intrisa di rabbia e una potenza espressiva mai raggiunta sino a quel momento, si confida sui maltrattamenti subiti durante l'infanzia; sicuramente uno dei pezzi più intensi e belli della sua produzione, ma la scelta di utilizzarlo come primo singolo si rivelò appunto un suicidio commerciale, un brano troppo particolare e atipico verso il quale molti network radiofonici si dimostrarono restii, contribuendo così alla scarse vendite dell'album.

Subito dopo, quasi per rasserenarci dall'inquieta atmosfera creata col brano precedente, è la volta di John I Love You, romantica dichiarazione d'amore a ritmo di valzer (e caratterizzata da continui cambi di tempo) che ci introduce verso le più pacate sonorità del resto dell'album dove ritornerà comunque il tema dell'infanzia come nella delicata ninna nanna My Darling Child (dedicata al figlio, che si ritaglia poi anche un breve cameo) e nella drammatica All Babies (malinconica come solo certe sonorità tipiche del rock irlandese sanno essere). Così tra minuetti pianistici (A Little Indian e Scorn Not His Simplicity), un sentito ma sommesso omaggio a Cobain (la spoglia cover di All Apologies) e richieste di rispetto (la filastrocca punk di Red Football) si arriva alla suggestiva e quasi ecclesiastica In This Heart, cantata a cappella assieme ad una polifonica maschile. Il finale del disco è però, come dicevo, inaspettato e quando si è ormai entrati in pieno nel mood dell'album si ritorna a sonorità più attuali (per l'epoca) con Famine, durissima invettiva contro le ingerenze inglesi sulla storia e sulla società irlandese, recitata su una spettrale ritmica hip hop che campiona persino (come già Fire On Babylon) Miles Davis. A chiudere l'album è invece l'ipnotica e vagamente trip-hop Thank You For Hearing Me, che si conclude col ringraziamento della O'Connor (rivolto ad un suo ex amante o al suo ex pubblico!?) per averle spezzato il cuore, rendendola così una donna molto più forte.

Questa ballata (scelta come secondo singolo) fu l'unica ad aver goduto di un discreto airplay, ma questo non servì a risollevare le sorti dell'album, la cui poca fortuna commerciale ha spesso erroneamente suggerito, negli anni a venire, che il meglio di Sinéad O'Connor vada ricercato solo nei suoi primi due album. Invece Universal Mother è probabilmente il suo album più maturo e profondo, sia a livello di testi che di capacità espressiva, non è certo il più immediato ma quello ingiustamente dimenticato, e non solo all'interno della sua discografia.

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