Quando si è giovani ragazzi sognatori e facile rimanere delusi. Ci si guarda attorno e ci si scopre estranei nella realtà che ci circonda. Soffocati in una generazione che non ci corrisponde. Confortati da piccole cose, fiori delicati invisibili al mondo. Poche cose, oltre noi stessi, sembrano corrisponderci. E allora cominci a parlare con te stesso. Principalmente scrivi, e custodisci gelosamente la tuà realtà racchiusa tra le pagine di un diario adolescenziale. Alcuni raccontano con fedeltà questo mondo metallico e freddo che ci circonda, la freddezza che è entrata nel sangue e nell’anima della gente. Ma altri sognatori volano più lontano. Descrivono universi paralleli dal sapore esotico e favolistico, dove si muovono creature fantastiche e mostruose, tetra rappresentazione, metafora, della vita.
Siouxie Sioux, ovvero Susan Janet Dallion, ha scelto uno scenario horrorifico e decadente. Un sabba lugubre e sanguinoso si consuma intorno alla visionaria unione di musica etnica ed elettronica, nel capolavoro del dark punk.
Canzoni maledette, chitarre furiose, un canto ossessivo. Siouxie è posseduta dai suoi demoni interiori, si abbandona a deliri ed urla straziate.
Il delirio di “Spellbound”, come per le Baccanti euripidiane, sfocia nell’orgiastico stato di trance di “Into the Light”. Il gusto medio-orientaleggiante di “Arabian Knights”, pezzo esplosivo seguito da due brani meno convulsi, ma ugualmente maledetti ed ipnotici, come “Halloween” e “Monitor”, che trasporta l’orrore in una cornice post-industriale. Ma le nebbiose terre lugubri dal forte sapore gotico ritornano nel cimitero di “Night Shift”, e continuano a regnare nelle successive “Sin In My Heart” e “Head Cut”. Il finale è affidato a “Voodoo Dolly”, un pezzo forse non così forte preso singolarmente, ma conclusione perfetta del disco con la sua area rarefatta e le atmosfere dilatate che si riempiono in un crescendo ossessivo e minaccioso, un sogno agghiacciante che si spegne amaramente nel rantolo spettrale di Sioux.
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