Gary Floyd di Austin, Texas: nella prima metà degli anni ottanta, ai duri tempi di Reagan, era un ragazzone completamente fuori di cervello e con qualche chilo in più, marxista convinto, gay dichiarato ed in possesso di una gran voce dalla spiccata indole blues, un po' Johnny Winter, un po' primo Van Morrison. Era la voce dei Dicks, oltraggiosa e politicizzatissima hardcore band che, come altre, non sopravvive alla crisi della scena di metà decennio; Gary, con la batterista Lynn Perko però non si ferma e rimedia subito a S.Francisco altri due sciagurati suoi pari a reggere chitarra e basso, con l'idea di assordare la Bay Area ora di sordido rock-blues ma sempre con la stessa furia dei Dicks. Ribattezza il tutto "Sister Double Happiness": dal vivo sono subito un "cult".

"Sister Double Happiness" diventa a breve anche la 162a uscita del catalogo SST nonchè il titolo del suo devastante inizio: quasi sei minuti di immensi riffs alla MC5 che si rincorrono su un turbine di tom e timpani, sovrastati dal potente e profondissimo canto di Gary. L'impatto è d'un intensità stordente. Intensità che si fa epica nella successiva "Freight Train" con un'altra memorabile frase hard/punk a far da sfondo alla cruda "soggettiva" di un malato di AIDS (".....ho chiamato mia madre che mi ha detto "Non tornare a casa", i miei amici mi evitano, sono completamente solo, prima di toccarmi si mettono i guanti...") e nel tris di ballate elettriche soffertissime del primo lato, dove le corde vocali di Gary ruggiscono ancora, assecondate dai fragorosi crescendo di tutta la band, per raccontare di pari passo coi suoni, temi tradizionalmente blues: storie d'amore tragiche o semplicemente finite male o anche solo quotidiano mal di vivere ("Signore, mi alzo ogni mattina per andare ad un lavoro che odio, per strada leggo cattive notizie; non è un modo infernale di cominciare la giornata?"...."Cry Like a Baby"). Intensità che non cede neppure nel seguito, meno ispirato sul piano compositivo, neanche nei boogie più scolastici o nei 12/8 magari sentiti mille volte rimanendo comunque forte nell'insieme, in quella onnipresente tempesta di chitarre gonfie come trichechi, marchiate di secca, essenziale genealogia punk.

Se all'epoca girassero suoni più "progressivi", se i SDH vadano o meno collocati fra gli apripista del grunge o che siano subito dopo passati su major, imbolsendosi in pochi anni e pochi album, tutto sommato nel 2010 poco importa. Per questo disco che trasuda ovunque passione vera, credo ci si possa forse un po' commuovere ma certamente entusiasmare anche oggi magari sgolandosi a sfinimento come fa Gary, ex agitatore politico ora umanissimo bluesman, in quell'assordante inizio, al grido di "Sister Double Happiness.....we loooove you!!!!".

Elenco e tracce

01   Do What You Gotta Do (04:26)

02   Ashes (03:44)

03   Motherless Children (03:30)

04   No Big Thang (02:22)

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