La fiducia è un concetto piuttosto controverso. Passiamo la vita ad erigere attorno a noi barriere sempre più spesse ed impenetrabili, per proteggerci dagli altri, dall'invidia, dall'aggressività, dall'odio... A volte ci barrichiamo talmente bene da non riuscire poi, di fronte a chi amiamo davvero, ad essere sinceri e aperti come vorremmo, a fidarci senza aver paura di subire tradimenti. Le innumerevoli porte sigillate all'interno di ciascuno possono quindi diventare invalicabili anche per i propri costruttori, i quali, pur custodendo gelosamente l'unica copia esistente delle chiavi, a volte si dimenticano dove hanno progettato le serrature, diventando così i detenuti della loro stessa prigione.

Per fortuna ogni individuo ha il suo personale asso nella manica; qualcosa che, entrando magicamente in armonia con il lato più intimo dell'animo, riesce a spazzar via, come se niente fosse, ogni sorta di austero bastione interiore. Nel caso del sottoscritto potremmo parlare di suono, o meglio di "sound", quello di Canterbury, il quale, per qualche arcana ragione, esercita su di me un fascino quasi trascendentale, misto ad un profondo senso di appartenenza, atto ad impersonare un simpatico messaggero, tornato da chissà quale realtà, per raccontarmi storie di tempi antichi e familiari, che non riesco a ricordare con la mente, ma che non potrò mai dimenticare con il cuore.

Come io non sarò in grado di scordare, nemmeno il bassista giapponese Hideyuki Shima lo sarà, né tantomeno gli altri sette musicisti che lo hanno accompagnato in questa avvincente escursione lungo le verdi lande canterburyane, avvenuta nel 2003, a tre anni di distanza dalla prima "I'm Here in my Heart", e ricordata sotto l'evocativo nome di "Prayer", come a voler consacrare un'ipotetica preghiera ai leggendari padri del genere, considerati alla stregua d'inesauribile fonte d'ispirazione da questi SixNorth, che non si limitano a ricalcare lezioni obsolete, ma ne usano gli elementi di base per costruire qualcosa di nuovo, un potente jazz-fusion con forti tinte progressive, caratterizzato da un taglio unico e decisamente personale.

Dopo un'impalpabile introduzione vocale, durante la quale facciamo la lieta conoscenza della cantante Chizuko Ura, una risata, come un fulmine a ciel sereno, spezza l'atmosfera, permettendo il vorticoso ingresso di chitarre e tastiere, immediatamente impegnate a sconvolgere i ritmi e le sonorità della composizione, riportati all'ordine dallo straordinario basso di Hideyuki ("Magnetic Factor"), il quale, per farsi perdonare, prende a braccetto i chitarristi Shinju Odajima e Takumi Seino e li fa scatenare sopra un terreno funestato da improbabili andature, dettate dall'inesauribile perizia batteristica di Hiroshi Matsuda ("The Fourth Way"), intento a sfogare il proprio tocco, energico quanto accurato, in una fitta giungla di assoli di chitarre e tastiere ("From Sri Lanka to Titan", dedicata allo scrittore Arthur Charles Clarke), le quali funamboliche evoluzioni, strizzano l'occhio ai connazionali Machine and the Synergetic Nuts.

La dolcezza si esprime tramite la graziosa voce di Chizuko, accompagnata per l'occasione dall'elegante violino dell'ospite Akihisa Tsuboy, perlomeno prima della romantica entrata del sassofono ("Everything Becomes Circle"), impressionante tanto nei suoi scambi solistici con le tastiere di Eisuke Kato e Kunihiro Kameda ("The Enneagram"), quanto nei duetti, all'insegna della sensibilità e dell'armonia, con la vocalist ("The Age of Horus"), la quale, a sorpresa, dopo un'incorporea e vellutata intro di tasti delicatamente accarezzati e corde appena pizzicate ("Introduction to Richard"), si lancia in un magnifico ed emozionante canto, magistralmente esaltato dagli artifici organistici dell'ospite David Sinclair (sì, proprio lui!), espressivo e caldissimo come la lacrima inevitabilmente destinata a solcare la guancia arrossata dell'ascoltatore, perso in una sorta di rapimento estatico di fronte allo spettacolare rifacimento di "Fitter Stoke Has a Bath" ("Richard"), ennesima dichiarazione d'amore ad un genere, nonché all'indimenticabile bassista dei Caravan e degli Hatfield and the North, preposto a rimanere per sempre nel mio, nel loro e nei cuori di tanti altri nostalgici appassionati, incantati dalla visione del vecchio Richard Sinclair, stagliato contro l'orizzonte e deciso a continuare un viaggio, iniziato ben quattro decadi fa, verso una meta fiabesca e misteriosa, in compagnia della sua fedele carovana dei sogni.

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