Quando Dante, Vate della letteratura italiana, decise di inoltrarsi in quella "selva oscura" che tutti quanti noi abbiamo almeno una volta in vita nostra immaginato, lo fece col preciso (ma non dichiarato, forse) intento di ascendere alla fine del suo viaggio, in Paradiso.
Da quel tenace e brillante scopritore che era, però, per prima cosa discese le bolge infernali, e tanta fu la sua minuzia nel descriverne i supplizzi e le pene che i dannati erano condannati a scontare, che tutta quanta la sua Divina Commedia è rimasta permeata da un certo qual gusto gotico, se lo si potesse dire senza bestemmiare i lumi del genio, che ha reso molto più interessante la parte per così dire, volutamente atroce del Poema, e non quella idilliaca ed ovattata che percorre i suoi passi nel Paradiso.
Ma se Dante non fosse riuscito ad arrivare al cospetto degli angeli e dei santi?
Che cosa sarebbe successo?
Questa blasfema curiosità non ci è dato di soddisfarla, ma, se volessimo, per circa un'ora e poco più, doverne immaginare i contorni, allora dovremmo per forza di cose dover inforcare le cuffie dello stereo, spegnere la luce, ed ascoltare una band che nella sofferenza atroce e nell'insopportabilità dei delitti infernali ci sguazza come un pesce: gli Skepticism.
Questo "Farmakon" che mi trovo a descrive non è altro che questo: un ribaltamento degli equilibri divini e della natura dell'uomo e delle cose. Quì il nero non diventerà mai bianco, ma nemmeno grigio. Rimarrà pece oleosa, stanca e appiccicosa, non lascinado nemmeno lo scampo della disperazione. Ultimo appiglio alla vita, ultima ancora per una salvezza che non verrà.
Se certe band "Funeral Doom" infatti, lasciano presagire una qualche remota, seppur lontanissima via d'uscita dal tunnel degli orrori che circonda chi le ama, gli Skepticism sono di avviso diverso, e non mancano occasione di ricordarcelo. La loro, non è la discesa negli abissi, è solamente la constatazione di quanto questi siano vacanti ed ingordi di anime. Niente di più.
Le loro chitarre dilatate, la loro batteria che solo nei momenti più veloci può classificarsi come "Doom", tanta è la sua lentezza ed esasperazione, esprimono pur tuttavia una diversa attitudine, o un diverso "feeling" all'approccio apocalittico di un genere che già di suo ne porta un carico a volte davvero devastante.
La giusta chiave di volta della loro produzione, infatti, non è la graniticità delle composizioni, o il loro opprimente arcobaleno di sensazioni negative. Niente affatto. Sui loro scudi invece c'è impressa una patina oscura che non deriva dall'ortodossia delle geometrie sonore, e quindi "dal di fuori", ma bensì da tutto quanto viene espresso "tra le righe". In quel sottile connubio di sensazioni e cose astratte, insomma, cui la musica non è altro che un orpello, un punto di partenza verso lidi che solo la mente può elaborare.
Intendiamoci. In quanto a processi materiali, questo disco è l'ennesima potenza del Funeral Doom, con i suoi spaventosi "grunts" da caverna, con le sue tastiere eteree e gli effetti da apocalisse del XXI° secolo. Ma c'è pure dell'altro. Messo dove sta proprio perché deve, in una qualche maniera che è difficile scindere razionalmente, creare una suspence, una sensazione di straniante dolore che, da un lato eccita i nervi e li tende, profondendo a piene mani nodi allo stomaco d'ansia e colpi alle tempie, dall'altra li addormenta come se si trovassero sotto l'effetto di qualche oppiaceo, per trasportare l'ascoltatore, di volta in volta, in posti sempre più amorfi, sempre più lontani, sempre più decisamente oscuri. E senza che si possa avere la qualsivoglia scelta di decidere se abbandonarli o no.
La spinta decisiva verso questo marasma infernale di negatività, viene data in maniera principale dall'organo che compare spesso e sovente nelle canzoni ("The Raven and the Backward Funeral", "Farmakon Process"), ma pure da una batteria dal suono spompato e volutamente approssimativo (almeno a mio parere), che non di rado disdegna d'approdare ad una accennata tribalità, specificatamente parlando, nella canzone senza titolo posta al numero quattro della scaletta.
Forse è proprio questo brano senza titolo a dare corpo maggiormente all'esercito di demoni che gli Skepticism evocano nel loro album.
Un esperimento, dove ai grunts vengono preferiti i serpeggianti vocalizzi angosciati del male. Dove tutto è un miscuglio di suoni lentissimi e catacombali che non hanno mai fine, e dove, nel calderone annerito della musica funerea (è proprio il caso di dirlo), trova spazio un'intransigenza sonora al cui confronto altre band dello stesso genere vi sembreranno suonare canzoni da sagra festaiola. E non è uno scherzo.
Io però, a queste elucubrazioni avanguardistiche, preferisco guardare con occhio interessato ma abbastanza sospettoso, perché credo che, invece, i migliori episodi siano espressi nelle tracce in cui la canonicità del Doom diviene più esplicita. Specie se si tratta della già citata "Farmakon Process", il cui riff centrale esprime in maniera egregia quello che gli Skepticism sono, riuscendo a far accapponare la pelle. Ma pure le ultime due canzoni "Nowhere" e "Nothing", nella loro nefasta durata, non possono essere altro che straordinari esempi di "minimalismo atmosferico", e che da sole spiazzano l'80% delle composizioni di altri gruppi.
Logico. Quì si parla solo di "mezze figure" antropomorfe ed oniriche appena abbozzate, forse debitrici di un tocco Lovecraftiano più volte ribadito, cui l'immaginazione di ognuno deve dare un volto completo. Ma rimane il fatto che pochi riescono nell'arduo compito di dipingere un sì tale tragico stato d'animo come, invece, ci riescono gli Skepticism.
Logico pure che questo album sia un mattone pesantissimo che nel suo incedere plumbeo non è adatto che ad una piccolissima minoranza di ascoltatori. Ma per questi, ascoltare un disco del genere è meglio di qualsiasi Paradiso, perché lo si capisce bene: l'Inferno è molto più palpabile e concreto di ogni idealizzazione e desiderio felice.
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