"non faccio voto di devozione a bandiere, le brucio"

Kory Clarke, singer e mente di una delle band più sottovalutate dell’intero panorama rock americano degli anni 90, alias i Warrior Soul, molto prima dei Rage Against The Machine e di altri gruppi impegnati politicamente, proponeva e gridava sotto forma di musica una visione della realtà piena di contraddizioni, di oppressione, di violenza, di ingiustizia.

La sua voce calda, più incline al blues, a mio parere, che all’hard rock, ed allo stesso tempo rabbiosa, propugnava ideali di lotta al potere ed al sistema. Egli si voleva, in sostanza, fare portavoce di quelle esperienze da strada che l’avevano segnato in giovinezza e che, pertanto, aveva vissuto egli stesso con i suoi occhi e sulla sua pelle (fu autista di un noto boss della mala di Detroit e suo spacciatore). Forse il suo limite sta proprio nel fatto di aver calcato troppo la mano, nel senso che forse, ad un certo punto, si era calato troppo nella parte sino a voler diventare quasi un profetizzatore, un trascinatore di masse. Tant’è che ben presto i Warrior Soul furono mollati dalla Geffen, loro casa discografica, anche per via dei guai giudiziari di Clarke.

Musicalmente la band propone un incredibile rock tenebroso ed acido allo stesso tempo, in cui la voce deviata di Clarke si inserisce perfettamente. Il capolavoro della loro discografia, e quello che ebbe maggior successo, fu “Last Decade Dead Century”. Un disco che è l’espressione di un sound innovatore per quei tempi in cui impazzavano i Guns'n’Roses e compagnia cantante. Un rock che si rifà agli stessi Guns, ma anche ai Black Sabbath, e caratterizzata anche da profonde venature psichedeliche ed acide (il paragone con i Killing Joke, anche se un po’ forzato, è forse il più calzante). Il punto di forza è, neanche a dirlo, la voce straziante del singer che raggiunge la sua massima espressione nella ballad “Lullaby”, una canzone che forse, in origine, era stata pensata come una ballata romantica, ma che a causa dei vocals di Clarke, ne diviene una song malata ma affascinante allo stesso tempo. Ma ciascuna canzone di quest’ album rappresenta un segno della grandezza di questa band, in cui i capitoli migliori sono da ricercare negli inni di “I See the Ruins” , nella disperazione di “The Losers” e nella rabbia di “Downtown”.

Con questo mio scritto, nel mio piccolo, ho inteso omaggiare quello che sarebbe potuto diventare il poeta maledetto della musica rock, ma che si è bruciato in poco tempo a causa del suo forse eccessivo ego. Poeta maledetto che, però, ci ha lasciato in eredità, assieme alla sua band, degli episodi musicali di indubbio valore, pezzi intensi e coinvolgenti come pochi che volevano essere un monito agli oppressi per alzare la testa e lottare.

"in punto di morte non smettere di sorridere mentre il coma ti divora"

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