All’alba dell’uscita del nuovo disco di questo quartetto a stelle e strisce, eccovi l’ultima fatica datata 2003, un’uscita che rappresenta una delle mie più cocenti delusioni in ambito musicale.
Uscito a soli due anni di distanza dal capolavoro “Foreshadowing Our Demise”, rappresenta una svolta improvvisa e decisiva nella produzione degli Skinless (che spero vivamente si concluda qui). I nostri infatti, anche dopo il contratto con l’importante label “Relapse Records”, avevano ormai abituato il pubblico ad un certo tipo di Brutal Death metal, maledettamente cupo, oppressivo e sinceramente soffocante, che nessun altro aveva e ha mai tentato di riprodurre: il mood dei loro due precedenti lavori era assolutamente indescrivibile per pesantezza e per la sua capacità di annichilire completamente l’ascoltatore. Quando nel luglio del 2003 ordinai questo disco, nutrivo grandi speranze, credevo che mi avrebbe dato (o meglio, tolto) nuova linfa e avrebbe saziato la mia fame di atmosfere violente e di rassegnata disperazione.
Invece non andò così, nonostante lo abbia ascoltato per mesi nella speranza di trovare qualcosa di simile, fosse anche un solo dettaglio: ebbri di fama, gli Skinless, hanno voluto aprire la loro musica al grande pubblico, perdendo però gran parte di quello vecchio. La loro proposta si fa in questo cd molto più accessibile e richiede un impegno emotivo decisamente scarso: se ad alcuni potrebbe sembrare un tentativo di maturazione, ad altri (tra i quali il sottoscritto) sembra un’abiura imperdonabile.
La formazione vede, dietro le pelli, la dipartita Bob “The Big Guns” Beaulac in favore del giovane John Longstreth, ex Origin ed Exhumed: ricordo che al tempo già questo mi fece pensare in quanto, nel precedente lavoro, mi ero profondamente innamorato del drumming particolarissimo del compianto Bob (ora per fortuna tornato all’ovile). Costui, forse più tecnico del suo predecessore, dimostra infatti una freddezza ed una asetticità che lasciano perplesso chiunque si ricordi i numeri e le trovate geniali dei dischi passati. Niente da criticare, un batterista senza macchia, molto preciso e molto capace, ma troppo statico e incapace di esprimere sentimenti veri: drummer come lui, privi di inventiva e legati alla tradizione Death Metal, ce ne sono “a iosa se non di più”.
Il chitarrista mostra ancora una volta di essere un grande esecutore e di sapere scrivere partiture veramente complesse, potenti e personali: forse l’unico a superare la prova a pieni voti, l’unico che tenta di restituire agli ascoltatori un po’ di quanto avevano creato prima, ma purtroppo non basta.
Il bassista, che nel precedente album si faceva sentire (e come!!!), non si sente neanche e viene usato solo per tappare i vuoti di un suono tutto sommato poco pieno: colpa della produzione di Neil Kernon (sovrintendente delle registrazioni di importanti gruppi del settore), che rende poca giustizia sia alla batteria che alla voce, creando un sound distaccato e poco compresso che contribuisce non poco alla “faciloneria” ed ad rendere insulso il disco.
La voce poi, è una pugnalata alla schiena: fa impressione sentire uno dei migliori growler del panorama Death (senza esagerare) esibirsi in rade ma incresciosissime Clean Vocals. Il suo growling ormai perde di mordente, forse il primo segnale del suo abbandono della band (è ora subentrato al suo posto il fratello del bassista). I testi, così come il mood, sembrano voler ritrattare quanto detto e fatto in passato: per quanto siano visioni pessimistiche del mondo e della sua imminente rovina, sembrano prive di quella sostanziale, apocalittica soddisfazione nel reagire al degrado generato dagli uomini con l’odio nei loro confronti e con l’unica consolazione della morte (“In death we are free… at last!” recitava l’incommensurabile “Smothered").
Tuttavia non vorrei che la mia critica, generata da un rancore personale, fosse fuorviante e tendenziosa: il genere proposto è un Brutal Death abbastanza tradizionale ma dotato di una certa personalità. Le nove canzoni sono strutturate e rifinite con una grande cura per il dettaglio e sono indubbiamente più ascoltabili e “leggere” di quelle del passato: gli strumentisti danno prova di grande tecnica, riuscendo ad eseguire passaggi anche decisamente difficili. I quattro dimostrano una maggiore apertura e l’intenzione di intraprendere una nuova strada: manca però quella carica di emozione e di passione che ha reso grandi i cd precedenti. Paradossalmente, l’episodio più riuscito è secondo me la strumentale “A False Sense Of Security”, dove ancora si fa sentire il millenarismo dei Newyorchesi.
Se dovessi badare a quello che sento, gli darei il minimo dei voti, ma, nel rispetto dell’oggettività, non posso farlo: “From Sacrifice To Survival” è un bel disco che gira nello stereo per un paio di mesi, ma che nel tempo non lascia nulla ed è destinato a prendere polvere. Può piacere ai fan del Death metal ma non ai fan degli 'Skinless'.
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