Sul pavimento di legno; imbacuccato nel sacco lenzuolo. Raggomitolato per conservare calore. Mi sembra di vedere la scena dal di fuori del corpo: eccomi lì in una stanza ignota di una casa non ancora terminata vicino a 4 estranei ed un amico nuovo di zecca, per il quale si vede ancora il cellophane protettivo, con i quali ho in comune solo la passione per la corsa e la montagna. Sono sopra Pozza di Fassa che mi osservo fare finta di prendere sonno mentre la sento scendere. No, non mi inganno anche se il tetto è due piani sopra. Non è vento; non solo, almeno. E’ proprio pioggia battente quella che cade ed a fugare gli ultimi residui dubbi ecco giungere il rumore lungo, inequivocabile e fragoroso, di un tuono. Vacilla, perde l’equilibrio e quasi cade. Per mesi mi sono allenato per questi 22 km di salita e discesa nelle dolomiti del Sella e quando la sveglia finalmente suona la bruma quasi ci copre la meta. La delusione, il reale timore del rinvio, la affoghiamo sul pavimento in un barattolo di nutella, fette biscottate, frutta e poche parole che tentano di smuovere qualche sorriso. “Se volete comunque, nello zaino, ho la crema a protezione 30”.
Partenza ritardata e percorso modificato causa nebbia per salvaguardare l’incolumità dei partecipanti. Un fottio di persone, 600-650 chi lo sa?, sgambettano nervose per tutto il paese in fibrillazione mentre la pioggia si fa finalmente via via più leggera. I 22° gradi di ieri sera sono solo un tiepido ricordo, ormai chiuso e archiviato in un polveroso annuale di fredde statistiche, ed il presente ora recita cazzuto 11° C. La tensione sale; specie per chi, come me, è alla sua prima gara di corsa in montagna. Sento la necessità di andare al bagno. Una, due e tre volte in 30 minuti prima della fatidica partenza. Sarei quasi tentato di prenotare una bella visita dall’urologo se non mi dicessero fosse cosa assolutamente normale. Un pubblico enorme fatto di turisti curiosi, famigliari e amici applaude per i primi 300 metri in piano. Ti nutri dei loro sguardi increduli ed invidiosi mentre ti osservano correre in salita: droga che ti fa sentire Dio. Poi, bruscamente, per una quarantina di minuti e 800 metri di dislivello nulla. Mi colpisce il silenzio assoluto ed irreale che copre il serpentone allungato: sembra che qualcuno abbia messo una pellicola isolante sui concorrenti. Si sente solo il fiatone ed il fruscio delle scarpe nel prato fangoso. E’ come se tutti avessimo perso l’uso della parola e come zanzare attirate dalla luce corressimo, più o meno affannosi e coscienti, verso una gigantesca calamita. Numeri ti passano, li passi a tua volta e poi ti ripassano. 318, 601, 22, 308, 54. Cinquanta-quattro. E’ lui, Matteo, quello che mi porta. Amico di amici lo taggo mentalmente e come un parassita lo seguo; tengo il suo ritmo fino al bagno di folla del Passo Pordoi. Un frastuono in lontananza si fa, via via, più nitido mentre file di persone che ti incitano ti si parano improvvisamente davanti. Mentre aumento il ritmo mi rendo conto di commettere una tremenda cazzata, ma l’adrenalina è tale che non puoi fare a meno di prenderti un pizzico di gloria.
Ed eccole lì le zeta taglia gambe. Ti sorridono e ti sfidano: lo sanno, bastarde, che per 600 metri ti faranno sputare fatica e sudore. Mi ritrovo con i bastoncini in mano e mi tiro su alla meglio. Dove cazzo è finito il 54? L’ho perso: il sentiero è stretto ed angusto, difficile passare: pieno di addetti ai lavori che fotografano, tifosi e così cerco di non alzare lo sguardo per cercarlo. Provo a prendere un gel. Altra cazzata. Sembra miele e deglutirlo diventa una mini-impresa, mi scende sulla maglietta e mi imbratta le mani rendendo più scivolosa la presa delle racchette. Con lo sguardo in basso, zeta dopo zeta, riesco infine a raggiungere i 2850 metri della forcella. Sono talmente alte le voci che, per un istante, non sento più la fatica. Un bicchiere di sali e via pronti per la discesa che morde i quadricipiti all'istante.
E’ la Val Lasties. Sembra che il meteo abbia posticipato il suo temporale di 2 ore proprio apposta. Per farci passare là dove 4 ragazzi eccezionali del posto del soccorso alpino sono morti sotto una valanga il 26 dicembre scorso per tentare di salvare/trovare 2 escursionisti. A metà luglio inoltrato scendiamo così per la stessa angusta valle: uno scivolo bianco estremamente pendente. C’è chi cade, chi scende ad una velocità folle e vorticosa, chi maledice profondamente il giorno in cui ha deciso di iscriversi. Mi sembra di essere acqua in un lavandino nel mentre in cui il tappo viene tolto. Non vorrei scendere così forte. Le mie caviglie da ex pallavolista me lo dicono, me lo consigliano e mi pregano, ma non posso fare altro che mollare le gambe spinto dalla massa. E poi arriva la roccia ed il sentiero. I volontari nei punti più pericolosi ti indicano la strada continuamente e ti danno quel pizzico di sicurezza, nel caso dovessi cadere, a mo’ di guard rail umani allargando le braccia. Il fango sotto le scarpe è stato tolto in parte dalla neve, ma la pioggia scesa ha reso le rocce scivolose e quindi nella corsa sul sentiero si cerca disperatamente la terra per avere maggiore presa nella pericolosa traccia. Eccolo lì! Per un attimo torna il 54. E’ 2 curve più in basso di me. Quando il sentiero spiana la fine della corsa è ormai vicina ed inaspettatamente sento le gambe andare ancora. Tenendo metaforicamente in mano gli zebedei con ultimo sforzo alzo il ritmo rischiando su un paio di radici e sassi e riesco così a prenderlo. Ne avrei nel tratto conclusivo, ma lo aspetto per dovuta riconoscenza. E’ stato lui che mi ha portato in cima. Nei 300 metri in piano conclusivo potrei scattare tra due ali di folla tenute dalle transenne, come fosse una tappa di un giro ciclistico. Siamo infatti ormai in vista della piazza di Canazei gremita.
Mi tornano in mente i 6 mesi nei quali mi sono allenato alla Ikea: montando tutto da solo grazie ad un libretto di istruzioni fatto di consigli di amici e conoscenti. Torna prepotente la strada forestale che illuminavo con il frontalino d’inverno, i sentieri di montagna percorsi di continuo in primavera ed inizio estate. La paura di quella volta in cui ci ho quasi lasciato una caviglia su una radice compromettendo tutto quanto. Le magliette zuppe di sudore, quel costante sapere di sale. Tutto per un obiettivo che ora, cazzo, è lì in vista su tanto di tappeto rosso con un tempo per me incredibile.
Altro che scatto. Avrei voluto usare il rallentatore, avrei voluto che non finissero più quelle tre curve. Le falcate ampie mentre io e Matteo, 77 e 54, tagliamo il traguardo. Il primo è transitato da venti minuti, (ma ne abbiamo dietro quasi 550!), e la sensazione, mentre vedo amici e famigliari, è quella di stringere tra le mani qualcosa in continua espansione. Non riesci a contenerla ed i palmi li devi per forza di cose aprire ed eccolo lì un puro momento di felicità spuntare su un urlo di gioia ed un sorriso senza fine. Leggero, sollevato e pago con me stesso prendo la borraccia da un addetto. Me la assaporo su una panchina con gli amici vicino. La conquista di un obiettivo personale a lungo agoniato ed ora finalmente raggiunto con un po’ di palle, fango, sudore ed acido lattico come gentile ricordo nei giorni a seguire.
Dedicata al mitico nr. 54, Matteo! Grazie davvero.
ilfreddo
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