È una discografia divisa in movimenti, quella degli Skyclad. Periodi di tempo durante i quali gli inglesi hanno tentato più volte di abbellire la propria proposta musicale, usando piccoli accorgimenti e varie sperimentazioni da stendere sul loro sound. Negl’ultimi anni, non se la stanno passando poi così bene: l’abbandono di Martin Walkyier, fondatore nonché pioniere del gruppo britannico, ha privato i membri d’una concreta fonte d’ispirazione, cosicché i dischi che ne sono usciti, si limitano ad essere passabili esempi d’un folk metal privato del mordente e dell’estro compositivo dei primi lavori.
Un tuffo nel passato è quindi necessario per capire la straordinaria potenza espressiva di questa band che (ricordiamolo) è capostipite di un movimento che oggigiorno coinvolge migliaia di band in tutto il mondo; perché se non fossero esistiti gli Skyclad, forse i Finntroll non avrebbero mai fatto capolino dalle foreste finlandesi, o i compatrioti Korpiklaani non avrebbero mai cantato di sbronze e riti sciamani nei villaggi scandinavi. E se album come Burn Offering for the Bone Idol e Jonah's Ark rappresentano i primi punti d’incontro tra paganesimo e folclore popolare, questo Prince of the Poverty Line racconta, con la crudezza tipica dei suoi predecessori, il disagio sociale delle classi inferiori, si mette dalla loro parte, le sprona ad una dignitosa rivolta. A proposito di questo, l’opener Civil War Dance diventa il manifesto del disco stesso, lo scenario ideale per il canto isterico di Walkyier, che però esordisce con l’antologica frase sussurrata “Shock the System, Shock the System” ormai annotata sul libro dei ricordi d’ogni postero chiomato che si rispetti. Il pezzo è violento e articolato, tenuto stentatamente a bada dai fraseggi del violino che sembra voler esprimere tutta la sua brama di libertà, senza però mai invadere la vera natura del pezzo. Questo per dire che gl’inserti folk ci sono, ma non riescono mai a predominare la veemenza metallica sprigionata dalla formazione inglese.
La rivolta dei poveri contro le ingiustizie del potere, ha però bisogno di un movente, che è impresso nei versi che descrivono la decadenza urbana di Carboard City, mediante un fruibile classic heavy metal adornato con un gradevole lavoro di keyboards in secondo piano. Si inizia a saltare con Sins of Emission, nervosa danza proletaria dove la chitarra e il violino s’inseguono in una cavalcata, rotta dai tonfi grevi del drumming mentre Valkyier sbraita il refrain con tutta l’anima. Il canto del popolo oppresso viene momentaneamente accantonato dai secondi iniziali di Land of the Rising Slum, un intruglio di percussioni in salsa “tribale” che riesuma il mood politeista dei precedenti dischi, prima che le parti elettriche introducano l’ennesimo furioso scioglilingua di Martin che nel refrain (sfidati a restare fermi!) sembra quasi di vederlo sgambettare in una danza pagana con gli spiriti maligni. Insomma, uno di quei pezzi che i ragazzi dei già citati Finntroll e Korpiklaani, avranno certamente imparato a memoria come un salmo in onore di Odino. Il pezzo si quieta con la voce dei musicisti che ne ripetono il titolo, finché un arpeggio acustico, sorretto dal decadente patos del violino, ci trasporta in un angolo di una casa legnosa, davanti ad una finestra aperta, dove si stendono campi agresti dai quali filtra l’odore e la purezza della terra, mentre le anime dannate si ritirano nell’Oltretomba. Martin, non più dominato da forze oscure, improvvisa uno sgraziato canto pulito che introduce One Piece Puzzle, pezzo sospeso tra ballad e mid-tempo che chiude abilmente la prima parte del disco.
Si continua a saltare con A Bellyfull of Emptiness, grazie alle incalzanti parti ritmiche e agl’arrangiamenti etnici, ancora una volta sovrastati dal muro elettrico. A questo punto, due episodi di transizione per noi: A Dog in the Manger, che va a recuperare (in modo meno efficace) il clima e la struttura dell’opener, e la “thrasherotta” Gammdion Seed che torna in parte a recuperare il materiale del debut. Insolita invece la “doom suite” dall’eufonico titolo Womb of the Worm, che si apre sui tragici effetti acustici di una battaglia campale, per poi snodarsi in un cupo e infausto clima, che nel refrain forgia la sua più avvolgente intensità, soprattutto per la cantilenante espressività delle vocals. Giunge infine l’ultima furente filastrocca The Truth Famine, dove torna il disagio sociale, individualizzato però fra le mura di un ambiente domestico: altro modo efficace per denunciare il frustrante decadimento della “bassa” società inglese. Un brano dove l’atmosfera folk si crea finalmente un posto d’onore sul resto degli strumenti, gettando anche le basi su quello che sarà (a parere di chi scrive), il capolavoro assoluto degli Skyclad, ovvero quel A Silent Whales of Lunar Sea dal quale nascerà un approccio meno perfido e più ragionato, palesemente influenzato dal prog “settantiano”.
Prince of the Poverty Line (targato 1994), è il quarto capitolo di una discografia che chiude il periodo più crudo e sincero della band. Resta inoltre un illustre esempio di un metodo compositivo, oggi saldamente impresso nella gloriosa cronologia evolutiva del metallo.
Dedico questa recensione a Giasson: onnipresente compagno d’ascia delle mie avventure metalliche all’interno del sito.
Federico “Dragonstar” Passarella
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