Ultimamente il cosiddetto folk metal gode di buona popolarità tra coloro che ascoltano la cosiddetta musica estrema e molti gruppi, penso ai Finntroll, ai Korpiklaani, agli Ensiferum, ai Turisas, ma ce ne sono sicuramente altri magari anche più rappresentativi, devono il loro successo alla commistione di riff black o melodic death e strumenti tradizionali (da notare che negli ultimi anni hanno preso molto piede influenze power e sinfoniche), il tutto correlato da ritornelli degni di osterie dove scorrono fiumi di birra spesso cantati in growl o in scream. Quello che molti non sanno, o che hanno dimenticato, è che questo (sotto)genere è nato dal buon vecchio thrash.

Ebbene sì, infatti nell'ormai lontano 1990 il cantante Martin Walkyer esce dai mitici Sabbat a causa di divergenze artistiche con l'altra mente del gruppo, ovvero il chitarrista Andy Sneap (ora noto produttore), e affiancato da Steve Ramsey (chitarra) e Graeme English (basso), provenienti dagli storici Satan e Pariah, fonda gli Skyclad con l'intento di creare "the ultimate pagan metal band". Il nome già di per sé è una dichiarazione d'intenti, in quanto si riferisce ad una pratica dei riti pagani wicca, ovvero quella di stare nudi (clad) sotto al cielo (sky), e dimostra quanto Walkyer abbia a cuore questi argomenti, come già si era visto con il concept di "Dreamweaver" dei Sabbat.

Probabilmente per il carismatico cantante non si tratta di un nuovo inizio, ma del proseguimento di un discorso, infatti il suo stile vocale rabbioso e graffiante caratterizzato da una metrica particolare non è cambiato dalla sua precedente prova in studio e i suoi testi fiume criptici e curati quasi in modo maniacale, altra grande differenza con il folk metal da sagra della salsiccia di caribù dei giorni nostri, travolgono l'ascoltatore dall'inizio alla fine dell'album. Ciò che risulta nuovo rispetto allo stile dei Sabbat è la presenza del violino che compare all'improvviso qua e là, ad incominciare proprio dall'iniziale "The Sky Beneath My Feet", ed ottiene probabilmente il suo momento di gloria nella ballata "The Widdershins Jig" che può essere presa come canzone manifesto nella quale il genere trova la sua identità. Identità che verrà maggiormente concretizzata già dal successivo "A Burnt Offering for the Bone Idol", dove al violino verrà dato molto più spazio, e poi ulteriormente dal terzo album "Jonah's Ark" dove il thrash, ormai morto come genere, verrà abbandonato del tutto.

In sostanza questo è un disco ancora acerbo, ma tremendamente spontaneo, che personalmente ritengo irraggiungibile e concettualmente superiore a tutti i lavori folk/viking/celtic/symphonic metal che attualmente saturano il mercato discografico, con buona pace per la Nuclear Blast. 

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