Slaughter: il cervello di Golia nel corpo di Davide. Una belligerante macchina da guerra, molto folkloristica, dotata di bocca spara lacca pietrificante, borchie rotanti, armature in pelle disumana e ruggiti da leoncino. Dopo tanti anni, anche io mi trovo a fare il defender e schifare l'"hair metal" parodistico di questi tempi ma, se ci penso, un gruppo come questo, in un disco come questo, diventa un ottimo pretesto per scherzare sul glam tosto degli anni che furono. Non che, a mio modesto parere, siano da buttare a piè pari, ma così proprio non va.
Questi Kiss de borgata, questa brigata minacciosa come un Blackie Lawless arrapato, questa banda trucidamente sdolcinata di tamarri n°1, questi Manowar (per la parte scenografica) del rock provenienti da Las Vegas hanno scommesso molto su se stessi e, almeno all'epoca, erano riusciti ad alzare un bel gruzzoletto e una discreta fama con l'esordio del 1990 "Stick It To Ya" e successivo tour di supporto ai Kiss. Poi decidono di strafare due anni dopo, forti di cotanta sponsorizzazione, con questo "The Wild Life" che effettivamente ha molto di selvaggio. Tra rombazzi di moto della serie "oddio mio stanno arrivando!", inopportuni suoni celestiali, rifacimenti country tipo cowboy seduto sulla sedia a dondolo, cappello calato sugli occhi e stivalazzi poggiati sula ringhiera, i signori se ne escono con un disco non propriamente bello, ma nemmeno privo di episodi divertenti. Tra i difetti principali da annoverare c'è una produzione che definire cafona significa darle valore, una voce e una pronuncia sguaiatamente bassolocate (quasi puzzano d'alito), e la ballad di chiusura che sembra una presa per il culo. "All the days gone by, do you remember when we were the best friends!" con campane che suonano a festa su un ritornello da pianola karaokesca.
Di positivo c'è la spinta glam rock classica, aggressiva e coriacea di Reach for the sky e The wild life, unita al party (un po' tamar) rock di songs come Out for love, Dance for me baby, Hold on e altre ancora. Queste quattro belve affamate di palcoscenico sanno suonare, pure bene, però hanno grossi limiti espressivi: non si sono inventati niente a differenza di tante formazioni che hanno praticato lo stesso genere e che con il secondo album si sono consacrate.
Per quel che mi riguarda possono essere considerati una meteora che, ancora infuocata, sta girovagando per l'universo sparata a milioni di anni luce. Ma ecco, meglio vederli e osservarli da lontano. Da vicino sembrano solo l'esasperazione, una prima forma di parodia sul genere. Rolling Stone a questo album da tre stellette. Io gliene darei due e mezza semplicemente perché erano realmente convinti di quello che facevano. Ma DeBaser non conosce mezze misure e quindi un due pieno come un uovo. Marcio.
Carico i commenti... con calma