Non è ancora il momento di fare le reazionarie, Sleater-Kinney.
Ad esempio, qualche giorno fa vedevamo la tv. Passa la pubblicità di qualche cotoletta surgelata da fare al microonde, non so, non ricordo bene il prodotto. A un certo punto, dal nulla, il tizio della pubblicità dice a sua madre che il suo amico in realtà è il suo compagno, cioè che si vogliono bene. Lei ovviamente la prende strabene e noi ci rallegriamo per loro, per la loro dieta di merda e per quest’improvvisa apertura progressista, ed è tutto un brindisi, un viva l’Italia e qualcuno improvvisa un l’Italia è il paese che amo, qui ho le mie radici, i miei orizzonti eccetera. Ci rallegriamo anche del fatto che il prodotto in promozione ha su la marca del celebre produttore di bastoncini di pesce, e chi non capisce l’ironia della cosa è un Kanye West. Comunque non voglio fare del sarcasmo, ci fa piacere davvero.
Solo che allo stacco pubblicitario successivo passa un’altra di quelle pubblicità che la moglie pulisce la cucina e il marito torna a casa in ammiraglia e valigetta, si complimenta per la brillantezza del tutto e le dà un baciotto premio e il biscottino. Poi un’altra che lei non riesce a trovare il prodotto adatto per scrostare la merda del marito dal bordo del water. Poi un’altra che Claudia Schiffer deve premere un bottone appositamente studiato per bionde che non sanno trattare la frizione e sfracellano i SUV dei mariti nel disperato tentativo di spuntare in salite di pendenza quasi nulla. Insomma, siamo di nuovo demoralizzate e demoralizzati e cerchiamo riscatto.
Metto su, quindi, il nuovo Sleater-Kinney. Sapete, negli anni novanta e fino al duemilasei le Sleater-Kinney erano la figa della musica alternativa americana. Tre agguerrite lesbo-amazzoni femministe. All’inizio facevano quasi foxcore, poi si sono imborghesite melodicamente, pur restando garagine e combattive nello spirito e in episodi diffusi.
Le chitarre delle Sleater-Kinney, in quel particolare e unico intreccio Danelectro, hanno contribuito a insegnarci che la lotta non è rinuncia all’espressione di sé, né adesione acritica a parole chiave e archetipi di un movimento. E credo che sbagli chi dice che le Sleater-Kinney furono il culmine delle riot grrrls. Le Sleater-Kinney furono qualcosa di decisamente diverso e di più; qualcosa che guardava al femminismo avanguardistico del sono-femmina-faccio-quel-che-faccio di Kim Gordon. E credo che sbagli anche chi si dice solidale alla causa, si veste da illuminato progressista e poi scivola sui “la Brownstein”, sui “la Tucker” e sui “la Weiss”.
La summa e il compendio di tutto fu The Woods, duemilacinque, che diede il loro meglio ironico-melodico – senti un po’ Modern Girl – ma era un disco nel complesso pesantissimo e storto come forse mai prima. Poi dieci anni di iato e progettucoli; poi improvvisamente reunion, cofanetto autocelebrativo e disco d’inediti: questo No Cities to Love.
Ma questo No Cities to Love è solo una mezz’ora di mestiere ed esperienza. Le rabbie idealiste adolescenziali ora sublimate in sterili critichine di costume mi suonano lontane non solo dalla ferocia ormonale di una Little Mouth, ma pure dalla più meditata sofferenza di una Dig Me Out. Ma tanto lontane che mi viene istintivamente da gridare all’involuzione reazionaria. La baritona di Tucker si adagia veramente troppo spesso su un bassismo standard, non dico addirittura pigro, ma certamente sottodimensionato rispetto al passato. Il sound perde tanto, di conseguenza; non fosse per una Brownstein in stato di grazia, si tenderebbe a quell’anonimato stigmatizzato nei tempi remoti della loro Anonymous. Ma a parte le belle chitarre e alcune soluzioni ritmiche carine, trovo un arido e ammiccante vuoto d’ispirazione.
L’hype sfrenato e lo stantio groovoso e puzzone di Bury Our Friends, il primo singolo. Poi la natura morta morta in copertina. Poi la farsa dell’uscita anticipata causa furto e condivisione dei master. Tutto faceva pensare al peggio, in effetti.
Brownstein si è convertita definitivamente all’essegì e la fa da padrona e meno male, perché se A New Wave è il pezzo migliore per distacco – l’unico veramente all’altezza dei loro standard – certi episodi a marchio Tucker sono quasi imbarazzanti. L’incazzatura quarantenne di Fangless, per dire, è il punto più basso della loro carriera, nonostante l’uno-due iniziale possa impressionare in positivo. Il ritornello armonizzato che funziona in A New Wave, nella title track suona talmente forzato e posticcio che in coda ci si sentono i Queens Of The Stone Age. Altri pezzi, tipo il pasticcio di Fade finale, suonano anacronistici e nostalgici e nulla più. Buoni per farsi venire voglia di mettere su le Warpaint.
Quattro o a voler essere buoni cinque canzoni le salviamo pure, per la loro stravaganza sghemba e per la maestria con cui sono suonate, che comunque resta e beato chi se le vedrà dal vivo. Ma a colmare le lacune d’ispirazione non perviene neanche una briciola di cattiveria-core né un po’ di quel rock’n roll papale-papale che ti faceva scorrere belli anche pezzi minori tipo Ironclad. Tutto sacrificato in nome di un indie rock educato e amichevole, quarantenne e sposato-con-figli come Tucker.
Insomma, un disco bruttino e superfluo. Se siete gente amareggiata per il sessismo fermo alle quote rosa mentre tutto intorno si evolve e progredisce, andate a cercare conforto nei vecchi dischi delle Sleater-Kinney. Se volete ascoltare uno dei migliori gruppi indie partoriti dagli anni Novanta, fate altrettanto.
Se invece vi piace ascoltare Virgin mentre mangiate pastabarilla, eccovi serviti.
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