"Per me si va nella città dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va fra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore, fecemi la divina podestate, la somma sapienza e 'l primo amore.
Dinnanzi a me non fuor cose create, se non etterne, ed io etterno duro.
Lasciate ogne speranza voi ch'intrate."
È con questi endecasillabi demoniaci, scolpiti sulla porta che dà l'accesso all'Inferno, che si apre il terzo canto della prima, omonima cantica, in cui verrà divisa l'opera più conosciuta, maestosa ed importante di uno fra i più grandi poeti della Firenze pre-rinascimentale: la "Commedia" -solo in seguito appellata come "divina"- di Dante Alighieri.
E, con ogni probabilità, la trasposizione profano/musicale di queste mistiche terzine si ha da ricercare nell'ultimo lavoro degli Sleepytime Gorilla Museum, quintetto californiano proveniente da Oakland capitanato da due ex Idiot Flesh (Dan Rathbun, basso: Nils Frykdal, voce e chitarra) e dalla violinista, nonchè voce, Carla Kihlstedt, proveniente dai Charming Hostess. Perchè la domanda beffarda posta ai diretti interessati, "In Glorious Times", altro non è che un pretesto per sparare, dinnanzi ai nostri timpani, undici, nuovi, infuocati, arzigogolati dardi, all'insegna dell'allucinato e dell'allucinazione, dello sperimentato e della sperimentazione, del bestiale e della bestialità, del disumano e della disumanità. È una malefica cavalcata nelle più torbide spirali dell'inferno, una continua distruzione di quanto più estremo -non solamente a livello di potenza- fossimo abituati a sentire. Come se i Meshuggah più cupi e claustrofobici cominciassero a litigare furiosamente con i King Crimson di "21st Century Schizoid Man", coinvolgendo nella disputa Universe Zéro e Tool, il tutto mentre gli Opeth duettano, nel sottofondo, con personaggi del calibro di Mr. Bungle e Björk. Se non avete nemmeno la più pallida e remota idea di come suoni quest'album, nessun problema: rientrate nella normalità. Lo dice anche l'implicito sottotitolo: "Lasciate ogne speranza voi ch'intrate". Nessuna speranza, infatti, nemmeno un minuscolo barlume di sole e di gioiosa lucentezza risplende in quest'album. Anche i segmenti più vivaci e splendenti sono animati da una sorta di scheletrino sadico e perverso, uno specchietto per le allodole che sembra giocoso, sembra festoso, ma non lo è affatto. E lo si capisce solo in un secondo momento, a proprie spese, mentre dall'alto gli Sleepytime sghignazzano, divertiti dalla confusione e dallo sbandamento che mulinella vorticoso nelle nostre teste.
I dieci minuti e quattro di "The Companions", l'opener del disco, sembrano messi lì apposta per sviare totalmente ogni sospetto sulle reali intenzioni del supergruppo californiano. Eppure, quel continuo tintinnare di campanelli, sotto una voce maschile che potrebbe adattarsi tanto ai Queen quanto agli Architecture In Helsinki, e quelle armonizzazioni così ingombranti e barocche, che ogni tanto cigolano e diventano aguzze e taglientissime, giusto il tempo di ricomporsi nella loro esagerata placidità, dovrebbero lasciar prevedere qualcosa. Si dovrebbe capire che non è tutto oro quello che luccica. Ma, inevitabilmente, appena ti compare il dubbio, ecco arrivare l'angelica voce femminile della Kihlstedt, che spazza via, in tutte e quattro le direzioni, i moribondi rimasugli di perplessità rimasti. L'ascolto continua.
E così, sono riusciti ad ingannarci. Senza scomporsi più di troppo.
D'ora in poi, al centro di Gerusalemme è comparsa una voragine. Sono stati loro, lo sappiamo, vero che lo sappiamo...? Sono stati loro. Sembra impossibile che si siano accordati con Dante, per farci rivivere almeno una minima parte dell'orrore contenuto nelle viscere della terra e così bene raffigurato dal nostro illustre compaesano. Così, inizia una folle corsa a spirale nei gironi diabolici. Una corsa con una fine segnata ancor prima che tutto fosse stato scritto.
Un florilegio di dissonanze disturbanti, alchemiche partiture, degenerazioni sonore imprigionate e torturate oltre ogni dire: un deviante incrocio fra sprazzi di clean sound, meticoloso, particolareggiato e ricco di profondità, si alterna -e, spesso, si sovrappone- ad un altisonante giocoforza di cori baritonali provenienti dal più oscuro dei baratri (le reminescenze della caccia alle streghe che rivivono in "Puppet Show"). O, ancora, sprazzi di progressive rock settantiano, ottimamente suonato, si uniscono ad un climax di pizzicori industriali che poco o nulla sembrano avere di terrestre, mentre i due cantanti si alternano alle parti vocali, prima con effusioni soffici e completamente fuori luogo, poi con growl oscuri e limacciosi che affondano le radici nell'eresia più blasfema ("Formicary"). E donano al tutto un'aria malatamente stralunata.
Un normale essere umano ne avrebbe abbastanza già da ora, ma gli Sleepytime vanno avanti, implacabili, proponendo di volta in volta uno zibaldone inimmaginabile dei più disparati generi, come se volessero distinguere, a forza, tutti i gironi dell'Inferno. E quindi, come in un terribile incubo, sfila l'elegante "Angle Of Repose", un pout-pourri cedevole di danze tzigane, continui giochi di controtempi che demoliscono progressivamente la matassa ritmica del pezzo, distinti arabeschi vocali che sussultano e si contorcono, sotto un tappeto di archi, in ruvide e quantomeno grezze tirate hardcore, in completa antitesi con le atmosfere sentite un paio di minuti prima. Oppure lo stridente giro di chitarra che, aprendo "Ossuary", porta alla mente le superstizioni magiche degli antichi Celti, quando poi il tutto viene violentato con un'efferatezza sconvolgente, per trasformarsi in un ibrido metallico, allucinante e psicotico nelle sue grandguignolesche accelerazioni. Ma anche le atmosfere, raffazzonate e un po' ingenue, di "The Salt Crown", che saltano, come in preda ad un'epilessia mortale, dai Genesis di "The Knife" al crust-core più ferino e seminale -ed è un contrasto che sembra davvero impossibile-, sino alla sonnolalia minacciosa conclusiva che può riportare alla mente qualcosa dell'ultimo Scott Walker. E come dimenticare l'onirico tormento della jam-session di "The Only Dance" che, a tratti, sembra uscita dai canoni -se così si possono definire- del grande John Zorn?
Ma il peggio non è ancora avvenuto. L'ipogeo è vicino ma, per arrivarci, dovremo subire un ultimo, grande supplizio. "Helpless Corpses Enactment" è, senza alcuna ombra di dubbio, il vertice dell'intero disco, Il punto in cui l'Inferno viene pungolato e vomita, all'esterno, i suoi maleodoranti fumi. Suona come se tutti i demoni della Terra si trovassero nel deserto e, per sopravvivere, fossero costretti ad ingollare litri e litri di acqua santa. Suona come se un'ombra oscura calasse sulla Terra ed opprimesse i suoi abitanti. Sofferenza, disperazione, rabbia cieca ed incontrollabile che divampa, incendiaria, a distruggere tutto ciò che di gradevole appariva ai nostri occhi. Una colata di lava spinta, a ritmi sistolici, da un grande lavorìo di doppio pedale, e da un growl arrotante ed implacabile. che infierisce con sistematica metodicità sugli ascoltatori, trasfigurati in una sorta di vittime sacrificali. Il tutto per giungere al "Putrid Refrain" e ai suoi deliri elettronici che, di quando in quando, cominciano a girare freneticamente, cozzando con fragore contro il buon senso comune.
Il viaggio è finito e, con esso, qualcosa di sconvolgente. "In Glorious Times" è un disco da acquistare, da studiare, da ascoltare una sola volta. Vi basterà.
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