Prima di rinchiudersi nello scantinato. Prima di fissare il suo pugno colmo di mosche. Prima di mutarsi in ragno e penzolare amaramente dai fili delle sue fragilità.
Un tempo l'uomo del sottosuolo era solo un ragazzo che gironzolava per il mondo.
Vicoli, immondizie, carcasse d'automobili, voci spezzate, ragnatele polverose e sbafi di merda lungo i marciapiedi. Persone soprattutto, volti su cui passare il palmo della mano per non dimenticarli più.
Nove piccoli pezzi, un solo grande cordone ombelicale da tagliare. Ciao mamma, ciao papà, ciao cane, ciao rock. Regalo, lettera, discorso d'addio? Sì. Ma il regalo è un filtro ricavato da un biglietto usato del bus, la lettera è scritta da un amico stronzo e il discorso è pieno di sputazzi e vaffanculo.
Un sound tracotante, aspro, scapigliato, dai nervi scoperti e dai muscoli tesi. Parte hardcore e finisce para-psichedelico dopo aver sbroccato in un free-form da pastiglia, parte noise e finisce di schianto dopo aver sguazzato in una pozza indie, parte incazzato e finisce introverso dopo aver pisciato su tutto quello che ci si aspetta da lui.
Come si fa a far colpo sulla più figa della classe? Sussurri e testosterone, spoken word da fattone e scatarrate rock.
E in tutto questo metterci la lucida follia di un metodo non ancora brevettato, l'accanimento impaziente di scariche elettriche che cercano in piazza 5g di erba buona, le caviglie solide e infaticabili di ritmiche pesanti come la fiatella post-sbornia.
Libertà? Piuttosto ricerca di libertà in luoghi codificati, un voler aprire finestre attraverso l'artificio. Come al parcheggio della Standa, tanti anni fa, quando ci si ritrovava dopo cena e il delirio collettivo prendeva il via dopo il segnale: "chi arrizza appizza".
Un disco con la pelle unta, le unghie sporche e la coscienza accesa. Gira nel piatto senza chiedere il permesso e scivola via come l'adolescenza.
Poi il ragazzo si è fatto uomo, ha sceso le scale e chiuso la porta.
Il rock, invece, è rimasto fuori.
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