A volte mi soffermo molto a pensare su cosa sarà di me nei prossimi anni.

La verità è che non vedo il mio futuro così roseo. Anzi, a dirla tutta, non lo intravedo neppure. Questo per via del fatto che, tra innumerevoli vicissitudini, vuoi per una ragione, vuoi per l’altra, gli ultimi anni sono stati trascorsi in cerca dei migliori specialisti in grado di riuscire a capirci qualcosa. Capire cosa mi stesse succedendo. Capire se io fossi destinato a vivere più di quanto io stesso riesca ad immaginare. Capire cosa cazzo io abbia da farmi soffrire così tanto.

In fin dei conti, a loro, non frega un cazzo di noi. A loro interessa solo annusare il fresco profumo del nettare del danaro. Medici per danaro.

Altro che salvare vite. Fottono e se ne fottono.

Mi arrovella molto questa questione: “Tra 5 anni, io, sarò ancora qui?”. Qui, ad ascoltare musica, qui a cercare di poter lavorare, possibilmente non schiavizzato per 11 ore al giorno e non pagato. Possibilmente con un minimo di realizzazione che un ragazzo della mia età, un cazzaro che si è spaccato il culo per laurearsi, per poi spendere quasi tutto il patrimonio di famiglia donandolo a medici e specialisti, possa ritrovarsi qui tra la gente, vivo. A fare le cose che fa la gente.

La risposta è una. È, cioè, quella che, se le cose continuano ad andare seguendo la via che a loro piace seguire in questo momento, probabilmente, io, non durerò neppure quei 5 anni. E, forse, sarebbe un bene per me, ma soprattutto per gli altri.

Nessuno mi vedrebbe soffrire. Il mio capo la smetterebbe di rompermi i coglioni dicendo che su di me non può far affidamento perché mi assento troppo (perché a me piace assentarmi per malattia. Almeno mi pagasse la stronza..., scusate, volevo dire, la puttana, mi ero distratto). Smettere di far soffrire chi mi vuol bene e smettere di spendere inutilmente soldi.

Ecco, se dovessi andarmene dal Creatore, vorrei che come soundtrack nella mia stanza, dove io sia lì, finalmente, a riposare in pace per la prima volta nella mia vita, ci fosse questo disco.

Mi ero innamorato di “Alison”, l’opener di Souvlaki, coprendo così, quasi per caso, gli shogazer “Slowdive”. Non solo. Così facendo, mi sono innamorato della loro intera (seppur breve) discografia.

Preceduto dal bellissimo disco “Just For A Day” che racchiude la perla per antonomasia del genere stesso “Slowdive”, “Souvlaki” ne è il predecessore, destinato a far parlare bene e, allo stesso tempo, male della band.

Fatto sta che a me non frega assolutamente un cazzo.

Perché sin da “Alison”, song che mi trascina in un vortice di emozioni senza fine, riesco a riscoprire la voglia della band di tentare di staccarsi dallo shogaze tout-court per cercare di dare un’impronta leggermente più rocker e notevolmente più pop alle proprie song.

Song che, francamente, resteranno sigillate nel mio cuore e nella mia anima. “40 Days”, “Sing”, l’oscura e gelidissima ballad “Here She Comes” (“It’s so lonely in this place, so cold I don’t believe”) la meravigliosa “When The Sun Hits” che sfocia in un refrain dal tocco tipicamente noise che manda in estasi. E la voce di Rachel è talmente paradisiaca (ascoltare per credere “Machine Gun”) che, molte volte, ben si intreccia con quella più cupa di Neil (nell’opener “Alison” dal gusto retrò molto rocker, anche per via dell’uso leggermente più distorto del sound delle chitarre).

Un viaggio oltre la mente, un viaggio oltre la vita stessa.

Se dovessi viaggiare oltre la mia vita, vorrei questo disco come colonna sonora. Vorrei riassaporare le meravigliose melodie delle tracks tutte, fino a giungere all’acustica “Dagger” dove l’album si chiude.

Per poi ricominciare tutto daccapo.

Non desidero altro. Prendetela pure come il mio testamento.

Spero solo che dopo mi lascino ascoltare tutta la musica che voglio, con un posto particolare per “Alison”.

Se solo fosse tutto così maldettamente possibile lo farei oggi stesso……

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