Innegabile ci siano album che rivestono un'importanza affettiva per alcune persone magari più sensibili di altre. Ma che il recensore debba sempre nascondere i propri sentimenti in favore di un "aurea mediocritas", una distanza ottimale tale da non vedersi partecipato sentimentalmente, al di sopra delle passioni, è un concetto ormai superato. Quindi la mia sarà una recensione "punk", fanculo gli orpelli e la tecnica, se vi importa ci metto il cuore, cercando di spiegarvi cosa significa per me un album che mi legherà per sempre ai ricordi dell'estate 2011, ad un particolare momento della mia vita, felice, spensierato e sentimentalmente rigoglioso, perché a due anni di distanza, riascoltandolo, con dolore, perché quel momento magico è svanito, ma anche con affetto, perché la cultura della contemplazione del ricordo felice spesso è sinonimo di serenità, ho scoperto che penso ancora che "Dye It Blonde" sia un gran album.
A vederli questi ragazzotti imberbi di Chicago (vado a memoria, spero di non sbagliare clamorosamente) sembrerebbero l'ennesima incarnazione di una boy band senza arte né parte, pettinature impomatate, occhiate languide per ragazzine e tutto l'armamentario per eccitare la generazione Smartphone. L'approccio vocale del cantante poi potrebbe persino irritare, ben lungi dal possedere doti canore oggettive, punta tutto su un mezzo falsetto fanciullesco, lanciandosi anche in vocalizzi molto personali e non sempre piacevoli per un orecchio educato. Due anni prima avevano pubblicato il loro primo disco eponimo, un lavoro tipicamente lo-fi senza infamia e senza lode, acerbo ma con quel qualcosa in più che ha convinto un produttore rinomato come Chris Coady ad occuparsi di loro. E avviene così un piccolo miracolo.
Dal Lo-fi dell'esordio la band vira verso un pop zuccheroso dal gusto retrò ma che funziona alla grandissima, guarda ambiziosamente a certi lavori dei Beatles e dei Beach Boys, riuscendo a inventare e catturare un sound distintivo e applicandolo a tutte le tracce dell'album, con una prova di maturità addirittura esaltante.
"Weekend" apre le danze con una polverosa tastiera in lontananza e subito quel suono particolare di chitarra detta il primo riff. Suono che sembra provenire da Abbey Road, intesa sia come studio di registrazione che come album. Sì sembra la chitarra di un redivivo George Harrison, chirurgica, plastica, emotiva e carica d'amore. Si va di falsetto, ci sono "na na na", coretti che in altre canzoni saprebbero di insopportabile riempitivo e qui invece si fondono alla perfezione nel giro armonico di una canzone che non ha paura di mostrarsi gioiosa e frizzante, a costo di sembrare ridicola.
"Still New" ha un andamento Surf , una melodia sinuosa e dopo un breve bridge si strugge in un assolo di chitarra tra i più semplici ed efficaci che abbia mai sentito, poche note, scale armoniche facili facili che nel finale sembrano ripetersi all'infinito senza annoiare.
"Imagine Pt 3" offre una citazione pericolosa nel titolo, ma fin dalle prime note si capisce che i ragazzi non intendono affatto misurarsi col manifesto Lennoniano. Come al solito guardano a George, in questa che sembra la sorellina di "Weekend", sebbene un filo più complessa, ma sempre concepita come un gioioso ballabile estivo.
"All Die Young" alza notevolmente l'asticella qualitativa, di per sé già comunque alta finora. Ancora una volta è una tastiera sognante a spiegare le ali per farci atterrare nell'aeroporto di Pepperland, poche note di basso, una batteria Ringosissima e una chitarra slide che si rincorre coi vocalizzi del cantante, fino ad un sontuoso ritornello da cantare angelicamente in coro. Il ritmo è rallentato fino a che non si apre in un finale dall'allegria contagiosa, nonostante il titolo molto Emo.
"Fallen In Love" è una gelatina gommosa, di quelle che schifi a vederle ma poi non riesci a rifiutare. L'assolo di chitarra sembra davvero rubato dal giardino di Octopus e tutto è così pieno di entusiasmo e colore che non si riesce proprio a trovargli un difetto.
"End Of The Night" non aggiunge nulla a quanto detto finora, se non che alla festa partecipa anche un pianoforte sincopato che movimenta la solita canzone pop perfetta.
"Only One" porta in dote quell'anima Beatlesiana che finora era stata relegata in un angolo. Quella di McCarteny. E in un album tanto zuccheroso, il re indiscusso delle silly love songs non poteva mancare. Il gioco di incastri voce-chitarra è davvero grazioso. Certo per essere una canzone d'amore il ritmo è vertiginoso e l'impressione che se ne ricava è quella di un'edera rampicante, voluttuosa e intricata.
"Smile" su tutte mi lega a quei ricordi felici di cui sopra. Una vacanza al mare con una persona molto amata, quella perfezione che si raggiunge a costo di grandi sacrifici e dura sempre meno di quanto vorremmo, un'idea di infinito che solo l'orizzonte nobile del mare e la consapevolezza dei sentimenti può dare. Quando ti convinci che il sole sta splendendo solo per te è impossibile non innamorarsi di questa canzone, del suo pianoforte che mima onde placide, la melodia rarefatta e arancione, la progressione di accordi pieni di una grezza chitarra acustica che sembra suonata direttamente sulla spiaggia, i cori con echi di beach boys (echi? Urla!!!), un assolo malinconico e un finale in discesa che fa il verso a Let It Be.Ma cosa volete di più da una canzone estiva?
"Dance Away" è così sbarazzina da sembrare quasi stonata dopo il capolavoro di prima. Si salva per alcuni cambi di ritmo pregevoli all'interno e un gusto pop-punk che se questo non fosse un disco intriso di Beatles fin al midollo, farebbe scattare il paragone immediato coi primi Blondie. M siamo quasi alle battute finali, c'è il tempo per un ultimo lento
"Dye The World" sorretta da un ampio e maestoso riff di chitarra che ti rimane incollato addosso, sicuramente più della melodia, di per sé appiccicosa come tutte, ma forse meno efficace proprio per la robustezza di quella chitarra, decisamente indimenticabile.
Un gran finale per un signor disco, che col tempo si è fagocitato tutte le critiche negative che a suo tempo avevo letto ("troppo derivativo" "troppo per ragazzini" "roba da evitare per i diabetici"), alle porte c'è pure il loro terzo disco e, da quel poco che si è sentito, paventa un deciso cambio di sound. Bene così. Perché quest'album, questa formula, queste melodie, questo suono devono rimanere un'esperienza unica, non replicabile all'infinito, esattamente come quelle sensazioni che ho vissuto anche grazie a questo disco in quell'estate di due anni fa.
Potrei anche telefonare a quella persona che mi era vicino al tempo, chiederle di uscire, potrei persino persuaderla a parlare dei bei vecchi tempi passati assieme, ma a che pro? Sarebbe patetico e anche triste. Posso tornare a quel tempo con questa mezzora di disco, senza ferire nessuno, senza paura di perdermi perché una volta esaurita l'ultima traccia quel che resta sul volto è un sorriso, di quelli che aiutano a superare tutte le difficoltà, di quelli che alle persone che incontri per strada piace vedere, di quelli che possono portare solo altra felicità, diversa ma uguale. Come spero sarà il prossimo album degli Smith Westerns.
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